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News & Media

PMI E TRASFORMAZIONE DIGITALE: IN ITALIA, IL 54% DELLE AZIENDE INVESTE, MA MENO DI UNA SU CINQUE ADOTTA DAVVERO TECNOLOGIE AVANZATE

Più di una PMI italiana su due (54%) dichiara di investire con intensità nelle tecnologie digitali, sia in modo mirato su singole aree sia in modo trasversale su tutta l’organizzazione. Eppure, la piena maturità digitale è ancora lontana. Se da un lato si registra una crescente presenza di figure interne a presidio della trasformazione digitale e primi segnali di revisione dei processi in funzione delle nuove soluzioni, dall’altro persistono alcune fragilità strutturali. Un’impresa su tre, ad esempio, non dispone ancora di un responsabile IT – interno o esterno – e l’adozione tecnologica si concentra spesso su strumenti di base, non integrati tra loro e utilizzati prevalentemente in ambito amministrativo. Le tecnologie sono presenti, ma faticano a diventare vere leve di cambiamento trasversale e l’integrazione delle informazioni e la diffusione di competenze digitali nei processi core restano ancora limitate. Un contesto variegato e complesso, quello dell'ossatura economica del nostro Paese, nel quale la connettività inadeguata, la scarsa disponibilità di competenze e una cultura aziendale non sempre pronta all’innovazione restano le principali e più visibili barriere al cambiamento su cui manager e imprese devono porre ancora maggiore attenzione e concentrazione per guardare davvero a un futuro di crescita, ripresa e resilienza..

 

Questi sono solo alcuni dei risultati della ricerca dell’Osservatorio Innovazione Digitale nelle PMI del Politecnico di Milano che abbiamo voluto comprendere meglio in questo articolo, in vista della prossima edizione del Business Leaders Summit - la grande manifestazione dedicata ai migliori C-level dell'impresa contemporanea, organizzato da Business International, la knowledge unit di Fiera Milano, e prevista , il 26 e 27 novembre 2025, a Roma, presso lo SPAZIO FIELD di Palazzo Brancaccio

 

La digitalizzazione delle PMI italiane procede, ma troppo lentamente rispetto alla velocità con cui evolve il contesto tecnologico ed economico. Oggi, più che la carenza di risorse finanziarie, è la difficoltà nel leggere il cambiamento e nel trasformarlo in scelte strategiche a rappresentare il vero ostacolo. Serve un cambio di passo culturale, che coinvolga tutta l’impresa, dal management agli operatori, e una nuova capacità di visione di lungo periodo - spiega Claudio Rorato, Direttore dell’Osservatorio Innovazione Digitale nelle PMI -È fondamentale che l’ecosistema supporti le PMI per creare nuova cultura gestionale e che le politiche pubbliche siano progettate in modo verticale, partendo dalle specificità dei territori e dei settori, così da essere realmente efficaci e riconoscibili dalle imprese. Solo con questo approccio sarà possibile rafforzare la consapevolezza, facilitare l’adozione delle tecnologie e accompagnare le PMI verso una vera maturità digitale”.

 

LE BARRIERE ALLA TRASFORMAZIONE DIGITALE: COMPETENZE, RETI, RISORSE 
Se da un lato, come detto, il 54% delle PMI taliane dichiara un elevato livello di investimento in tecnologie digitali, il restante 46% adotta invece un approccio più cauto, perché il ruolo del digitale viene considerato marginale nel proprio settore (20%), per una scarsa comprensione dei benefici (10%), per i costi percepiti come elevati (9%) o per totale disinteresse (7%). Le piccole e medie imprese si trovano, infatti, ad affrontare numerosi ostacoli. L’83% dichiara difficoltà nell’adozione e nell’utilizzo di strumenti digitali, principalmente per carenze di tipo culturale (44%), per la scarsità di competenze specialistiche (59%) e per i costi legati all’adozione e alla manutenzione di hardware e software (40%). Inoltre, il 47% delle imprese evidenzia criticità nell’accesso alla connettività digitale. In questo senso, peraltro, elaborazioni su dati AGCOM mostrano che il 41% delle PMI non è servito da una connessione FTTH, e nelle province meno coperte la percentuale di PMI con accesso alla fibra ottica scende sotto il 30%. Una fotografia, questa, dalla quale risulta chiaro, quindi, come il tema della connettività resti una sfida aperta, in particolare nelle aree a minore densità imprenditoriale, dove l’estensione delle infrastrutture procede con maggiore gradualità. In questi contesti, l’accesso limitato a connessioni ad alte prestazioni può rallentare l’adozione di soluzioni digitali più avanzate, contribuendo a differenze di velocità nei percorsi di trasformazione e incidendo sul pieno potenziale competitivo delle imprese locali. Anche sotto il profilo finanziario, la trasformazione digitale resta sbilanciata: quasi la metà delle PMI (47%) ha sostenuto le spese esclusivamente con risorse proprie. Nell’ultimo anno, meno di un terzo ha attinto a fondi pubblici per la digitalizzazione. A limitarne il ricorso sono soprattutto la complessità burocratica e la difficoltà nel reperire informazioni, nonché la scarsa propensione a utilizzare strumenti innovativi (equity, crowdfunding, minibond).

 

LA FORMAZIONE E' UN INVESTIMENTO, NON UN COSTO
Le attività formative faticano a decollare: il 38% delle PMI non ritiene prioritario elevare le competenze digitali interne. Inoltre, la formazione resta concentrata soprattutto sui livelli operativi, mentre è spesso assente il coinvolgimento attivo di imprenditori e management, che dovrebbero invece essere i primi promotori del cambiamento. “Questa mancanza di ingaggio ai vertici indebolisce la capacità delle PMI di adottare una visione strategica dell’innovazione digitale e di guidarne l’implementazione in modo efficace. Troppo spesso - prosegue Rorato - imprenditori e manager non partecipano direttamente ai percorsi di aggiornamento, rendendo difficile l’adozione diffusa di nuove tecnologie. Inoltre, la formazione, soprattutto quella finanziata, deve agevolare le realtà più piccole individuando nuove modalità di fruizione, che remunerino il costo del lavoro e consentano l’impiego di piattaforme con programmi fruibili al di fuori dell’orario di lavoro".

 

TECNOLOGIE AVANZATE: IL POTENZIALE ANCORA INESPRESSO 
L’adozione tecnologica nelle PMI italiane si concentra ancora su strumenti semplici, spesso isolati tra loro e con funzionalità di base. I software gestionali – in particolare per amministrazione e contabilità – restano i più diffusi, seguiti da soluzioni di base per la protezione delle reti. Si registra una crescente diffusione – specialmente tra le medie imprese – di servizi in Cloud e di piattaforme di eCommerce B2b, mentre l’uso dei dati a supporto delle decisioni aziendali, pur presente, è ancora marginale e scarsamente strutturato. I benefici percepiti si concentrano prevalentemente nelle funzioni amministrative, finanziarie e di controllo di gestione. Tuttavia, solo una minoranza di imprese attribuisce al digitale un valore strategico, continuando a considerarlo un supporto operativo e non uno strumento capace di orientare le decisioni di business. Soluzioni come Data Analytics, Intelligenza Artificiale, Blockchain e Metaverso offrono nuove opportunità per migliorare prodotti, processi e relazioni, ma restano ancora poco adottate. Le imprese temono la difficoltà di integrazione nei processi esistenti e la mancanza di competenze interne più che i rischi tecnologici in sé. Così, secondo i ricercatori, serve un’azione corale per colmare il gap: il 61% delle PMI ha avviato progettualità di digitalizzazione con supporto esterno, ma soprattutto con soggetti con cui tradizionalmente hanno più familiarità (come fornitori tecnologici, professionisti e associazioni di categoria), meno con enti ad alto contenuto tecnologico (come startup, università e centri di ricerca).

 

IL RUOLO DELL'ECOSISTEMA PUBBLICO-PRIVATO
Per affrontare le sfide del futuro, le PMI devono rafforzare le sinergie con startup, università, poli tecnologici e attori della stessa filiera. Le collaborazioni pubblico-privato devono diventare leva fondamentale per attivare percorsi collettivi di innovazione. Le politiche pubbliche, dal PNRR ai bandi regionali, devono essere pensate, ma come strumenti di trasformazione culturale, capaci di attivare processi di collaborazione stabili. “Affinché le PMI possano affrontare con successo la transizione digitale, è fondamentale attivare un ecosistema di collaborazione stabile e continuativo. Le sinergie spontanee sono importanti, ma non bastano: il ruolo dei policy maker è decisivo nel favorire partenariati pubblico-privati capaci di valorizzare anche le imprese meno strutturate, quelle che più faticano a dotarsi di visione e risorse”, conclude Claudio Rorato.

... continua
IACOVELLI: LA VERA SFIDA NON È FARE DI PIÙ IN MENO TEMPO, MA SCEGLIERE DOVE PORRE L’ATTENZIONE PER DISEGNARE UN FUTURO D'INNOVAZIONE

«Nel mio ruolo, osservo ogni giorno quanto il tempo sia diventato una risorsa preziosa, ma anche fragile. La vera difficoltà, oggi, non è “fare di più”. È scegliere dove mettere attenzione, e farlo insieme al proprio team, in modo lucido e sostenibile». Alessandra Iacovelli, Direttrice IT e Trasformazione Digitale di Carrefour Italia, lo dice senza esitazioni e con grande consapevolezza. Secondo la manager, infatti, In un mondo sempre più velocizzato dall’avvento dell’intelligenza artificiale e reso complesso dalle policrisi in atto, nel 2025, parlare di tempo per un leader d’impresa significa affrontare un concetto che ha radicalmente cambiato natura. «Non è più una risorsa da gestire – spiega l’esperta –. È diventata una coordinata strategica, che determina la capacità di un’organizzazione di sopravvivere, adattarsi, competere». Per l’esperta la questione è lampante. «Le crisi ambientali, geo-politiche ed economiche che stiamo vivendo, ormai, non si succedono più. Si sovrappongono. E generano una complessità che non si può affrontare con vecchi modelli di leadership lineare. In questo scenario, il tempo va ripensato. Basta osservare il ruolo di un CIO oggi. Non può più lavorare su cicli tecnologici lenti o piani quinquennali rigidi. Deve decidere quando aggiornare, quando rallentare, quando innovare. Deve costruire architetture digitali agili, prevedere discontinuità, garantire continuità di servizio anche in contesti instabili. Ma non basta fare presto: bisogna agire al momento giusto». E questo vale per tutti i leader. «Non dobbiamo solo andare più veloci – prosegue la manager –. Dobbiamo imparare ad ascoltare il contesto e adattare il nostro ritmo di conseguenza. La vera resilienza nasce dall’armonia, non dalla corsa». L’evoluzione del concetto di tempo, d’altronde, è testimoniata anche da come questa si è evoluta in ottica di valutazione del lavoro di un professionista. «Negli anni scorsi – commenta Iacovelli – abbiamo assistito al passaggio dalla valutazione sul tempo a quella sugli obiettivi, che rappresenta la risposta alla necessità di un mondo del lavoro più agile, flessibile, produttivo e orientato ai risultati. Questo approccio favorisce l’innovazione, la responsabilizzazione e un migliore allineamento strategico, portando a vantaggi sia per i dipendenti che per le aziende». Secondo la manager c’è, poi, un ulteriore aspetto da considerare in questo contesto. Un elemento spesso sottovalutato, ma decisivo: il tempo delle alleanze. «In un mondo così interconnesso – approfondisce l’esperta –, il vantaggio competitivo è sempre di più quello collaborativo. Chi ha saputo costruire per tempo relazioni solide con partner, istituzioni, ecosistemi, sarà più pronto nel momento del bisogno. Le alleanze si costruiscono prima della crisi, non durante. E questo richiede una leadership che sappia investire tempo nella relazione, non solo nella performance». Il tempo, quindi, non è più solo una questione di produttività. «È una scelta strategica – conferma la manager –. Possiamo usarlo per rispondere meglio, per anticipare, per costruire valore sostenibile. E se impariamo a usarlo così, sarà proprio il tempo – e non la velocità – a fare la differenza». Sotto questo profilo, però, risulta evidente anche come, oggi, costruire una strategia efficace ed efficiente sia un atto di responsabilità verso il futuro dell’azienda, dei colleghi, dei clienti. «Per Carrefour Italia – annuisce Iacovelli –, la sfida è particolarmente intensa in questo senso. Operiamo nel mondo della distribuzione, un settore che ogni giorno tocca la vita delle persone, e che oggi si trova al centro di una rivoluzione silenziosa. I comportamenti cambiano rapidamente, i bisogni si moltiplicano, la tecnologia evolve in tempo reale. In questo scenario, non basta rispondere. Serve anticipare, e farlo con lucidità. Ci sono, a mio avviso, tre asset fondamentali che devono guidare oggi ogni strategia, se vogliamo restare rilevanti nel tempo: l’adattamento continuo, la coerenza con i valori e l’identità dell’azienda e la centralità delle persone. In Carrefour Italia, lo vediamo quotidianamente: la trasformazione digitale non è solo tecnica. È culturale. Richiede ascolto, accompagnamento, coinvolgimento. Solo così si crea un’organizzazione che si trasforma senza perdere coerenza. La vera domanda, oggi, non è: “Siamo abbastanza innovativi?” La domanda è: “Abbiamo costruito un sistema capace di rigenerarsi nel tempo, senza perdere il nostro DNA?”. Perché — e lo abbiamo imparato — non esistono aziende che resistono al cambiamento. Esistono solo aziende che imparano a danzare con lui». Un’abilità estremamente complessa da realizzare, eppure così importante da acquisire, per guardare avanti. «Il vero punto focale qui – ammonisce la manager – non è fare di più in meno tempo, ma dare senso al tempo che dedichiamo alle attività quotidiane. In Carrefour Italia, questo significa una cosa molto concreta: semplificare la vita dei nostri colleghi nei punti vendita. Rendere più fluide, intuitive ed efficienti le attività operative è oggi una delle nostre priorità strategiche. Per farlo, stiamo concentrando energie e investimenti su soluzioni di automazione e RPA che riducano il peso delle attività manuali e ripetitive, restituendo tempo di qualità alle persone nei negozi e nei team di sede. È un lavoro che parte dall’ascolto e si traduce in soluzioni tecniche tangibili, con impatti visibili giorno dopo giorno». In tutto questo, naturalmente, la tecnologia non è fine a sé stessa, ma diventa uno strumento per liberare tempo, ridurre complessità e migliorare la qualità del lavoro. «Il vero rischio oggi – aggiunge Iacovelli – è implementare strumenti che appesantiscono, invece di semplificare. Il vero successo, per noi, è quando una soluzione diventa quasi invisibile, perché è naturale, utile, e riconosciuta come alleata da chi la usa. Il nostro compito, infatti, non è solo innovare. È saper scegliere dove e perché farlo, mettendo le persone al centro della trasformazione digitale. È così che costruiamo il ritmo giusto per il cambiamento». Certo, viviamo in un mondo in cui l’intelligenza artificiale è diventata una leva potente, ma anche una sfida profonda per il ruolo dell’essere umano, non tanto sul piano operativo — dove l’AI può davvero moltiplicare la nostra capacità di analisi e previsione —, quanto sul piano del pensiero critico, della consapevolezza e della responsabilità nel decidere. In questo contesto, però, le nuove generazioni di leader hanno davanti a sé un compito non semplice: coltivare la capacità di fare buone domande, gestendo il tempo come un investimento e non come un vincolo e puntando alla flessibilità, senza rinunciare alla visione. «In un mondo che ti riempie di risposte, spesso fornite da algoritmi, cruscotti e report automatici — conclude la manager –, la differenza non la farà chi saprà leggere i dati, ma chi saprà interrogare il contesto. In questo senso, bloccare uno spazio per pensare è tanto importante quanto rispondere subito a una richiesta urgente. Dove il tempo viene progettato — per ascoltare, per migliorare, per testare — le persone rendono meglio e si sentono più ingaggiate. Ed è proprio qui che la visione resta la bussola. In un ambiente in continua e rapida evoluzione, sapersi adattare è fondamentale, ma sapere in che direzione si vuole andare lo è ancora di più. La resilienza non è resistenza, è capacità di riorientarsi senza disintegrarsi, ma avendo il coraggio di scegliere quando fermarsi, cosa ascoltare e come decidere».

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GUIDARELLI (CAMPARI GROUP): DAL TEMPO LINEARE ALL’INTRECCIO DI GENERAZIONI, L’AZIENDA È COME UNA FORESTA CHE DEVE TROVARE IL SUO RITMO PER CRESCERE

«C’erano una volta le generazioni, quella arbitraria suddivisione della vita umana in quattro grandi fasce di età – infanzia, giovinezza, età adulta e vecchiaia – alle quali corrispondevano altrettante attività – gioco, apprendimento, lavoro e riposo». Inizia quasi come una favola di Esopo la conversazione realizzata con Marta Guidarelli, Global HR Operations Director di Campari Group, in occasione della nuova edizione del report annuale dal titolo "Keep Time and Manage Leadership", prodotto da Business International, la knowledge unit di Fiera Milano, pensato per indagare alcuni degli aspetti più importanti da considereare per la leadership del mondo dell'impresa contemporanea e presentato lo scorso 19 giugno 2025 in apertura del Business Leaders Summit, tenutosi presso l'Allianz MiCo di Milano. Uno spunto che ci riporta a quando eravamo più piccoli per mostrarci una importante lezione sul cambiamento epocale che stiamo vivendo. «Ci siamo abituati a tal punto a vite cadenzate in questo modo – prosegue la manager –, che siamo arrivati a credere che il tempo sia una cassettiera, dove le cose vanno messe in un ordine esatto. E a confondere un artificio, lo scandire il tempo, con un fatto naturale. Abbiamo l’abitudine di definire il tempo e a riferirci a esso come a un concetto lineare, invece, il modello sequenziale della vita, oggi, deve essere scardinato per consentire una diversa organizzazione del lavoro, del mercato e in generale della società». Anche perché, mentre almeno otto generazioni abitano contemporaneamente il pianeta e 5 lavorano insieme, l’aumento delle aspettative di vita e il miglioramento della forma fisica e mentale rendono possibili vite più lunghe e flessibili, nel corso delle quali le nostre scelte saranno meno definitive e irreversibili e una più variegata gamma di opportunità e ripensamenti di carriera sarà a nostra disposizione. «Nelle aziende, come nella vita – sottolinea l’esperta –, il tempo è un fiume di onde che si intrecciano e le generazioni non sono “blocchi” separati. Ora, proviamo a entrare nella nostra azienda, proviamo a capire come si possa evitare la creazione di confini netti, divisivi e potenzialmente discriminatori. La nostra azienda è come un ecosistema, come una foresta. Nessuna foresta può sopravvivere con un solo tipo di pianta. Serve un equilibrio, tra alberi secolari, giovani germogli e tutto ciò che li connette. La convivenza tra esperienza e innovazione è ciò che rende una foresta - e un’azienda - viva e resiliente». Basti pensare che le piante, per esempio, comunicano tra loro, sottoterra, come spiega Guidarelli, grazie al “wood wide web”: una rete di radici e funghi che trasmettono risorse e informazioni. «Un albero anziano – aggiunge la manager – può inviare nutrienti a un giovane arbusto lontano. Se una pianta è in difficoltà, il resto della foresta la sostiene. È così che dovrebbero funzionare anche le aziende: non con compartimenti stagni, ma con scambi continui di conoscenza. Nella nostra foresta aziendale convivono, da una parte, Boomers e Gen X, che sono gli alberi secolari, con radici profonde che danno stabilità e saggezza, e, dall’altra, Millennials e Gen Z, che sono le giovani piante e i rampicanti, flessibili e in rapida crescita. E poi ci sono anche coloro che, a prescindere dalla loro età anagrafica, aiutano tutti a fondersi. Chiamiamoli Perennials, ovvero, persone sempre in fiore e con uno stile di apprendimento agile, sempre curiose di imparare. Non si definiscono per età, ma per la loro curiosità e capacità di recepire il cambiamento». Un’attitudine alla curiosità e alla continua incentivazione alla ricerca di modi innovativi per tenere attivo lo scambio in azienda, che contribuisce alla continua produzione di valore, senza fare sentire nessuno troppo nuovo o troppo obsoleto. «D’altronde – spiega Guidarelli –, non esiste leadership senza followership. Spesso ce ne dimentichiamo, presi dalla centralità che i temi aspirazionali hanno sempre rivestito nel dibattito aziendale e nella letteratura, per via del loro indiscutibile fascino, ma non esiste un capitano, senza un equipaggio da coordinare. E credo fermamente che per rimanere al passo con i mercati e le loro esigenze sia fondamentale capire davvero, profondamente e con letture multisfaccettate, i comportamenti dei propri follower». Un’abilità che, nella logica dell’esperta, consentirebbe di capirne i valori e intercettare i trend e i rischi futuri, considerando come follower un insieme esteso di possibili interfacce individuabili tra dipendenti, clienti, consumatori, azionisti e, in generale, stakeholder. «Se vogliamo veramente aiutare i nostri leader a essere capaci di intercettare le tendenze – analizza la manager –, non dobbiamo correre il rischio di chiuderci nell’autocompiacimento e dobbiamo guardare a ottenere “feedforward” dal mercato, indicazioni su desideri e aspettative future». Un modus operandi che porta, quindi, Guidarelli a richiamare la matrice di Kelley, un modello di letteratura dei primi anni ’90 che vuole segmentare le diverse tipologie followership e che vede il follower: più o meno indipendente nel produrre pensiero critico e più o meno attivo/passivo nel proprio comportamento. «Gli stili di followership proposti da questa teoria – spiega l’esperta sono cinque e si identificano in: Pecore, quelli senza pensiero critico e passivi, crogiolati nella inazione; Star, quelli con alto pensiero critico e alto ingaggio, che non si adeguano al pensiero del leader o al groupthink e che restano con la voglia di comunicare il proprio pensare, con spirito e scopo positivi, ma senza evitare il conflitto; Alienati, quelli che pensano ancora criticamente, ma che non ci dicono nulla, perchè credono vano ogni sforzo di comunicazione e quindi si arroccano nel cinismo; “Yes People” o Conformisti, il cui pensiero è appiattito su quello del leader e agiscono in coerenza con esso; Pragmatici, quelli che si comportano in maniera più o meno attiva, in base al contesto. Esercitarsi a capire i propri stakeholders è davvero il game-changer nella lettura della competitività di mercato. E dopo la comprensione, il decision making sarà una conseguenza naturale, che con varie tecniche può essere a sua volta incentrato su ascolto partecipato, dai Brainstorming alle Dialectical inquiries, dal Design Thinking alle Nominal Group techniques, fino alla Delphi Technique». In questo contesto estremamente variegato e complesso, la tecnologia deve assumere un ruolo di aiuto nelle attività più fagocitanti, di analisi e transazionali. «Ai tempi del fordismo risultava vincente affidare, con minimo presidio umano, a una macchina la produzione di pezzi per unità di tempo e accellerarne il più possibile il numero di giri – commenta Guidarelli –. Oggi che a consumare il nostro tempo sono le manipolazioni e le analisi di dati massive, scritture di contenuti di dettaglio, ecco che l’era della artificial intelligence ci viene in aiuto e chiediamo alle macchine di supportarci, nuovamente, a risolvere problemi più moderni, di un modo di lavorare contemporaneo. E, in questo contesto, per un leader il vero rischio da evitare è quello di lasciarsi abbagliare dalla bellezza e dalla velocità della tecnologia, senza avere fatto prima una riflessione strategica su ciò che deve davvero rimanere appannaggio dell’uomo e cosa invece può essere affidato alla macchina. Ricorrere all’aiuto della AI, infatti, non è il male assoluto, ma, per quanto essa sia affascinante, va approcciata senza subirla». Come a dire che saper discernere tra la richiesta di aiuto tout court e il supporto strategico è un’abilità che va sempre tenuta in grande considerazione per evitare gravi errori di valutazione che inizialmente possono essere presi alla leggera, ma sul lungo periodo possono dare vita a vere e proprie forme culturali del lavoro errate e controproducenti. Sbagli di valutazione che al giorno d’oggi un leader non si può permettere e che possono fare la differenza tra il successo e il fallimento. «In un periodo di grande trasformazione come quello che stiamo vivendo dobbiamo sempre ricordare che negli ambienti tranquilli nulla accade e che i rischi e i nuovi trend nascono proprio dalla discontinuità – spiega Guidarelli –. Quindi, la vittoria siede al tavolo di chi non ha paura del conflitto, esce da contesti in cui non si sente felice e si autorizza a sbagliare. Sotto questo punto di vista, infatti, mettere in discussione le proprie idee e quelle dei propri leader, per evitare di essere delle pecore prive di pensiero critico, dei followers acquiescenti addormentati nel groupthink e farlo riflettendo sull’importanza critica della comunicazione è la via. Detto questo, però, non c’è peggiore errore che indulgere in paludi che non ci consentano di fiorire e, a volte, bisogna avere il coraggio di andare volontari alle presentazioni più complesse, prepararsi, approfondire e non compartimentare, non credere che esista un tempo per studiare e un tempo per fare. Il tempo è fluido, e democratico: è una risorsa data. Le giornate hanno per tutti la stessa durata e la disciplina nella sua gestione sarà uno strumento ulteriore al quale allenarsi, per proteggersi, per bilanciarsi, per godere il più a lungo possibile della propria salute, benessere e successo, qualsiasi significato a esso si voglia dare».

... continua