Supply Chain & Procument è la unit che produce annual e corsi di formazione per 25.000 manager dell’area Acquisti, Supply Chain & Operations. Gli appuntamenti più attesi sono il CPO – Chief Procurement Officer – forum che riunisce il network dei Direttori Acquisti e il Connected Manufacturing, evento di riferimento per l’industria Manufacturing 4.0.
TAG: Acquisti, Certificati di Origine, Dogane, Import-Export, Incoterms, Logistica, Manufacturing, Operations, Process Excellence, Procurement, Produzione, Global Supply Chain
«Proverbi e detti popolari spesso ci suggeriscono punti di vista che celano grandi verità, come per esempio, “Chi ha tempo non aspetti tempo”. Magari è solo un modo di dire che ci ricorda quanto sia importante dare valore al tempo, ma soprattutto quanto conti non dare mai per scontato di averne abbastanza per “fare”. Perché non è così». È questa la visione chiara e sicura di Francesca Di Giuseppe, Procurement & Tendering Director di Almacis, che, in occasione della nuova edizione del report annuale dal titolo "Keep Time and Manage Leadership", prodotto da Business International, la knowledge unit di Fiera Milano - pensato per indagare alcuni degli aspetti più importanti da considereare per la leadership del mondo dell'impresa contemporanea e presentato lo scorso 19 giugno 2025 in apertura del Business Leaders Summit, tenutosi presso l'Allianz MiCo di Milano -, ha voluto mostrare, in poche parole pragmatiche, come la dimensione finita del tempo, in realtà, non sia un limite, ma un valore da cristallizzare per poter trarre il massimo anche da un singolo istante. Una capacità tutt’altro che banale e che, soprattutto oggi, deve fare i conti con l’avvento di nuove tecnologie con cui sotto questo profilo la sfida sembra impari già in partenza.
«Il valore ed il concetto del tempo diventano qualcosa di estremamente potente se iniziamo a vedere le cose in questo modo – sostiene la manager –. Tutto questo, chiaramente, va in controtendenza, però, con quello che è il contesto sociale attuale, dove la volatilità la fa da padrona e dove la velocità è a tratti disarmante, quasi a volerci suggerire o imporre di accelerare e in questo scenario mi chiedo se forse non sia invece il caso di fermarsi un attimo, imparare a “stare” nel tempo e massimizzarne così il valore». E a questo punto, varrebbe la pena di chiedersi: chi dice che bisogna fare tutto e subito? «Probabilmente – risponde Di Giuseppe – bisogna fare bene e subito. Ma in questo conflitto, che viviamo ormai quotidianamente, tra uomo e macchina: Quanto tempo ha l’AI e quanto invece ne abbiamo noi? E se invece, cambiando il paradigma imposto dalla modernità capissimo che è proprio questo il vero vantaggio competitivo, ovvero navigare in questo mare di velocità fermandoci sulle cose che davvero contano, come le persone e le loro interconnessioni?».
Due elementi, questi, che secondo la manager devono essere al centro di ogni strategia di leadership positiva e propositiva. «Una delle principali priorità di ogni leader è l’interconnessione e la fortificazione delle relazioni – sottolinea l’esperta –. Ciò che l’AI non potrà a mio avviso mai sostituire è proprio questo: l’essere persone, umani relazionanti e pensanti. Probabilmente, i nuovi strumenti consentono di dedicarci maggiormente a questo tempo di qualità. Creare, coltivare e fortificare relazioni con un obiettivo ed un dovere etico comune: il benessere della nostra società e del pianeta in cui viviamo».
In questo senso, quindi, l’interazione e la collaborazione, così come il concetto di open innovation, ci portano a fare e pensare insieme, come professionisti, verso un fine comune. «Viviamo, d’altronde – precisa Di Giuseppe –, in un’epoca in cui è impensabile di poter rispondere alle nuove esigenze dei mercati da soli. Nessuno può farcela da solo e in ogni settore sarà fondamentale l’unione e la sinergia lungo tutta la catena del valore in qualsiasi momento e a qualunque livello».
In questo scenario, quindi, la tecnologia è e deve essere un fattore abilitante, un’alleata preziosa per trovare il giusto bilanciamento tra tempo passato a pensare, creare ed il tempo passato ad operare. «Da questo punto di vista, il rischio più grande per un leader – commenta la manager – è quello di sottovalutare l’importanza e la potenza delle persone che sono messe nelle condizioni migliori per creare valore. Nuovi prodotti, nuove tecnologie e nuovi servizi nascono, si copiano e muoiono costantemente per far spazio ad altre. Le persone invece no e nemmeno la loro unicità fatta di emozioni e di capacità. Far fiorire il vero talento delle persone dovrebbe essere la missione di ogni leader, la vera chiave per creare vantaggio competitivo e sopravvivere alla concorrenza».
D’altronde, come ci ricorda Guido Stratta, fondatore dell’Accademia della Gentilezza e autore, insieme a Bianca Straniero Sergio, del saggio RI-eVOLUZIONE: il potere della leadership gentile (edito da Franco Angeli), «sarà il triangolo magico BENESSERE- MOTIVAZIONE-RISULTATO che spingerà le persone verso un cammino di crescita». Un percorso complesso da approcciare nel quale, «guardando al futuro, l’uomo dovrà ritrovare la sua posizione, soprattutto grazie allo sviluppo di un pensiero critico e alla capacità di porsi e di porre le domande corrette, tanto all’AI, quanto al proprio team e a se stesso».
«In questo senso – spiega Di Giuseppe –, fondamentale, come prima cosa, sarà avere le orecchie tese, sempre. Porsi in ascolto, drizzare le antenne. Solo in questo modo si riuscirà a stare al passo con i tempi. In un mondo sempre più virtuale, dove si parla di meta-verso e dove i confini diventano sempre più labili, converrà sfruttare la mobilità e l’assenza di “posto fisso” per uscire, esplorare e scoprire ciò che ci circonda. In secondo luogo, bisognerà essere coraggiosi. Buttarsi, provando a surfare il cambiamento e la volatilità delle cose, essere pronti a rivedere improvvisamente la propria rotta e a trasformarsi. Prima o poi tutti si evolveranno in qualcos’altro. Tanto vale accettare questo processo e abbracciarlo. In ultimo, non certamente per importanza, sarà essenziale ricordarsi di mettere al centro le persone, inclusi se stessi, mostrando rispetto per il proprio tempo e per quello degli altri, comprendendo anche le proprie vulnerabilità e cercando di non snaturarsi mai».
Si era partiti da una possibile perdita economica continentale pari a 400 miliardi di euro, con 5 milioni di posti di lavoro a rischio e dazi previsti tra il 30 e il 50% su tutte le merci. Si è atterrati su un 15% che brucia solo la metà dei miliardi di euro previsti e riduce gli impatti occupazionali a “solo” 1 milione di posti di lavoro a rischio in Europa. L’accordo commerciale tra gli Usa e la Ue si è cristallizzato così, a quattro giorni da una catastrofe annunciata, in una domenica scozzese di fine luglio dalla difficile interpetazione.
I PUNTI DI VISTA
Molti lo definiscono il miglior risultato raggiungibile. Altri lo vedono come una rapina a mano armata, o meglio in una resa senza opposizioni. C’è chi sostiene che l’Eurozona non avesse in mano nessun asso negoziale da spendersi. C’è chi sostiene che l’aggressività mostrata da Trump abbia spaventato così tanto la Commissione da paralizzare completamente la sua presidente. Se, però, a livello nazionale, molti opinionisti criticano la conduzione delle trattative, a livello paneuropeo gli opinion leader si complimentano per essere comunque riusciti a trovare un punto di atterraggio di minore impatto, rispetto alle previsioni iniziali.
Un punto di vista differente e, forse, più ottimista e conservativo, poi, lo propone la Presidente del Consiglio italiana, Giorgia Meloni, che giustamente sottolinea come quello firmato domenica sia solo un accordo di massa e che per economie come quella peninsulare ci siano ancora partite importanti da giocare in quei settori per i quali non si sono ancora definite regole d’ingaggio precise, come per la farmaceutica e l’agroalimentare, che in su un Pil come quello italiano hanno un peso specifico decisamente rilevante.
LA PROSPETTIVA ITALIANA
A tal punto che secondo i nuovi dati di ReportAziende.it, le nuove indicazioni commerciali tracciate dagli Stati Uniti rischiano di colpire una quota di export italiano superiore ai 42 miliardi di euro, con perdite annuali oltre i 6,3 miliardi, mettendo in pericolo tra i 15.000 e i 18.000 posti di lavoro. Dall’analisi, inoltre, emerge anche che le aree del Paese più esposte risultano le regioni del Nord, in particolare Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto e Piemonte, dove la presenza di filiere fortemente orientate all’export rende il sistema particolarmente sensibile a variazioni di margine. In queste aree, migliaia di lavoratori rischiano di essere coinvolti direttamente o indirettamente da tagli e ridimensionamenti produttivi. L’impatto economico varia sensibilmente a seconda del settore. La farmaceutica branded, con 12 miliardi di export verso gli Stati Uniti, potrebbe subire una contrazione da 1,8 miliardi di euro. La meccanica industriale, che rappresenta uno dei comparti più solidi del nostro export, rischia una perdita analoga. Anche comparti come l’automotive, la moda di fascia alta, il vino doc/dop, il design e l’elettronica medicale subiranno contraccolpi significativi, con una riduzione stimata tra 300 milioni e 900 milioni di euro ciascuno. In questo senso, quindi, è possibile che l’accordo Ue-Usa rappresenti sì un punto di equilibrio negoziale, ma non garantisca la tenuta del sistema produttivo italiano. Le imprese potrebbero ora essere chiamate ad affrontare una nuova fase, fatta di riorganizzazione interna, revisione delle strategie di prezzo e investimento in innovazione. Senza misure strutturali a supporto, il rischio è che questa pressione fiscale indiretta finisca per compromettere la crescita di molti settori trainanti dell’economia nazionale. “Con l’aliquota al 15% si evita lo shock che ci sarebbe stato con una tariffa più alta - spiega il team di analisi di ReportAziende.it - ma restano danni consistenti. Le imprese colpite hanno margini ridotti per assorbire costi doganali aggiuntivi, soprattutto se operano in filiere ad alta intensità di manodopera. È fondamentale reagire subito, con strumenti pubblici e privati, per trasformare questa fase in un’occasione di rilancio”.
I COSIGLI DELL’ESPERTO
Come mettere in pratica questa strategia nel migliore dei modi, però, se già Coldiretti, nelle ultime settimana, ha denunciato come solo nel mese di maggio 2025, a causa dell’incertezza della situazione commerciale, l’export del Made in Italy abbia subito un crollo della propria crescita, passando da un +11% nei primi 4 mesi dell’anno a un +0,4%, che ha impattato pesantemente i principali prodotti agroalimentari, come l’olio EVO, il vino, i formaggi e la passata di pomodoro? Abbiamo cercato di capirlo, attraverso il commento proposto da Pier Paolo Ghetti, Partner e Global Trade Advisory Leader di Deloitte Italia, che, sulle pagine della piattaforma Voices, ha cercato di spiegare come approcciare in maniera efficace questo nuovo scenario. «L’aumento delle tariffe – in particolare quelle statunitensi – non determina solo un incremento dei costi, ma si traduce anche in maggiore incertezza dei flussi internazionali, portando le aziende a ripensare la gestione dei propri flussi – analizza l’esperto –. Per contenere e governare questi rischi, diventa strategico adottare una strategia di diversificazione dei mercati di vendita e dei paesi di approvvigionamento, riducendo l’esposizione da singole aree geografiche e attenuando così gli impatti negativi delle politiche tariffarie». Secondo il manager, inoltre, in questo contesto volatile, un ruolo centrale potrebbe essere svolto proprio dalla conoscenza e dalla gestione delle normative doganali. «La capacità di gestire correttamente il diritto doganale – prosegue Ghetti –, non solo assicura la conformità normativa, ma rappresenta anche un’opportunità strategica che permette alle aziende di essere più flessibili e pronte ad adattarsi rapidamente ai cambiamenti». Per farlo, l’Advisor di Deloitte suggerisce principalmente tre azioni: la mappatura dei Paesi di sourcing e mercati di destinazione, l’identificazione delle categorie di prodotto e l’analisi dei dati di classifica e origine doganale. «In questo senso va ricordato che le amministrazioni doganali, in particolare quella statunitense, mettono a disposizione i dati delle dichiarazioni doganali permettendo una analisi granulare dei dati di valore ed esposizione daziaria per prodotto, categoria doganale, paese di origine e fornitore», spiega l’esperto. «In parallelo, poi – continua l’esperto –, serve una valutazione di scenario per il mercato Usa e altri mercati interessati, considerando le nuove tariffe (in vigore e annunciate) e le potenziali misure di ritorsione. Importante anche la gestione e ottimizzazione dei dazi tramite l’analisi delle diverse opzioni di riduzione ed ottimizzazione del carico daziario. Infine, è importante adottare misure specifiche non solo in ambito doganale, ma in generale sulla supply chain, per consentire all’azienda di ridurre gli impatti conseguenti all’introduzione delle misure di politica commerciale. Per implementare le azioni di mitigazione in modo efficace, è indispensabile, per le aziende, raccogliere e analizzare attentamente i dati doganali dei flussi di importazione ed esportazione, e in particolare gli elementi presenti nelle dichiarazioni doganali, quali la classificazione, l’origine e il valore delle merci. Questo perché il dazio si calcola normalmente sul valore di transazione, mentre la classificazione doganale determina l’aliquota applicabile in base alla categoria del prodotto. Allo stesso tempo, l’origine della merce può influire significativamente sulle tariffe, portando a riduzioni o aumenti a seconda degli accordi commerciali o delle misure in vigore». Tutti aspetti, questi, che, secondo Ghetti, possono essere tenuti sotto controllo attraverso la costruzione di una pianificazione doganale attenta, grazie alla quale, «le imprese possono adottare misure e strumenti che mitigano gli effetti dei dazi, come i meccanismi di rimborso del cosiddetto dazio “duty drawback”, la cosiddetta “first sale rule” o la riallocazione produttiva mirata». Ovvero, per esempio, un’azienda può, al ricorrere di determinate condizioni, ridurre il carico daziario utilizzando come valore tassabile in dogana il prezzo della prima vendita all’interno del circuito commerciale, anziché quello finale pagato dall’importatore. In alternativa, può trasferire parte della produzione in Paesi dove, svolgendo lavorazioni sostanziali, il bene acquisisce un’origine doganale per beneficiare di tariffe più vantaggiose. «Oltre a questo – aggiunge l’esperto –, occorre valutare anche le opzioni per ridurre o differire il pagamento dei dazi, sfruttando anche regimi doganali speciali che offrono una leva ulteriore di ottimizzazione dei costi doganali. Parallelamente, le imprese devono elaborare scenari che tengano conto sia dell’effetto delle tariffe in vigore sia di quelle potenzialmente in arrivo, così come l’esposizione ad eventuali misure di ritorsione commerciale». In conclusione, le tariffe doganali sono destinate a rimanere una realtà con cui le imprese dovranno confrontarsi. «Questo – chiosa il Partner di Deloitte –, ovviamente, rende e renderà indispensabile un processo di consapevolezza doganale per la reingegnerizzazione delle catene del valore globali in modo da garantire una maggiore flessibilità e resilienza, elementi chiave per contenere gli impatti negativi e preservare la competitività sui mercati internazionali».
Nel cuore della trasformazione economica e tecnologica che sta ridisegnando il mondo del lavoro, la logistica si trova oggi a fronteggiare una delle sue sfide più complesse: la carenza di capitale umano. Nel comparto logistico, infatti, il fenomeno del talent shortage è sempre più evidente: secondo gli ultimi dati dell’Osservatorio Contract Logistics “Gino Marchet” del Politecnico di Milano, a fronte di oltre 4,6 milioni di ricerche di candidati, ben 800mila posizioni legate all’ambito logistico sono rimaste scoperte. Si tratta di un divario ormai strutturale tra domanda e offerta che colpisce le professionalità più strategiche: il 40% delle figure richieste è infatti considerato di difficile reperibilità. Solo tre anni fa, questa percentuale era ferma al 27%. Non si tratta solo di mobilità professionale, ma di una ridefinizione del rapporto con il lavoro, alimentata dal bisogno crescente di equilibrio e benessere.
In questo contesto, alcune realtà si distinguono per aver scelto, con coerenza e lungimiranza, di ripartire dalle persone. “In un mondo in costante trasformazione, in cui l’Intelligenza Artificiale gioca un ruolo sempre più determinante, siamo del tutto persuasi che il motore del cambiamento siano e restino le persone, le loro competenze e le relazioni che queste sanno costruire – afferma Andrea Franceschelli, Vice Presidente e Direttore Generale di Due Torri, azienda bolognese attiva nel settore della logistica integrata –. È da qui che nasce la nostra visione, con lo scopo di formare nuovi talenti coinvolgendoli in modo equo e responsabile, generando valore condiviso. Una visione che si riflette anche nella comunicazione, intesa come strumento di inclusione, equità e accessibilità, capace di veicolare la cultura organizzativa in modo autentico e coerente. Ogni giorno nella nostra realtà lavoriamo per trasformare la complessità del presente in occasione di evoluzione, contribuendo a costruire un’idea di futuro più solida e condivisa. Al centro della nostra visione c’è da sempre un valore: l’unicità della persona”.
UN MISMATCH CHE FA MALE AD AZIENDE E PROFESSIONISTI
La situazione si è aggravata ulteriormente lo scorso anno, con oltre un milione di italiani che hanno lasciato volontariamente il proprio impiego, malgrado due terzi di loro fossero assunti a tempo indeterminato. A essere più carenti sono le competenze legate alle discipline STEM (matematica, scienze, tecnologia e ingegneria) considerate oggi fondamentali per affrontare le sfide di un mercato interconnesso, digitalizzato e in costante ristrutturazione. Uno scenario che riflette una tendenza ancora più ampia. Secondo le stime OCSE, a livello globale, oltre 1,3 miliardi di lavoratori non dispongono delle competenze richieste dal mercato del lavoro contemporaneo, generando così ogni anno una perdita economica pari a circa 8mila miliardi di dollari. In Italia, il disallineamento tra competenze richieste e profili disponibili coinvolge circa 10 milioni di lavoratori, con il 35% dei candidati che risulta sotto o sovra qualificato rispetto ai ruoli offerti. La difficoltà nell’incontro tra domanda e offerta di lavoro non si esaurisce quindi solo nella scarsità di competenze: un paradosso sempre più evidente è rappresentato, infatti, dalla presenza di collaboratori troppo qualificati, spesso con percorsi accademici e professionali avanzati, che si trovano costretti ad accettare ruoli sottodimensionati rispetto al proprio potenziale. Questo fenomeno colpisce soprattutto i giovani, generando una forma di “occupazione mancata” che alimenta insoddisfazione e turnover, e che riflette un altro volto del mismatch: non solo troppe posizioni scoperte, ma anche troppo talento non riconosciuto.
I PASSI PER RIDARE VALORE AL TALENTO
Le imprese si muovono oggi in un mercato dove la leva non è più il semplice reclutamento, ma la capacità di ascoltare. L’aumento dell’80% delle offerte di lavoro online rispetto al 2020, e del +2400% di quelle che propongono flessibilità oraria, racconta l’urgenza di un adeguamento. Ma gli sforzi non possono limitarsi all’ingresso: il fenomeno del quiet quitting, l’allontanamento silenzioso dei lavoratori prima ancora delle dimissioni, segnala quanto il mantenimento della motivazione e del senso di appartenenza siano cruciali per ogni organizzazione. E la chiave, sempre più spesso, è nella cultura interna, nel welfare, nella formazione e nella condivisione autentica degli obiettivi. In questa direzione, per esempio, Due Torri ha scelto di investire in modo strutturato nella crescita delle proprie persone, promuovendo un ambiente in cui l’apprendimento continuo è parte integrante della cultura aziendale. Ogni anno vengono erogate circa 780 ore di formazione, con l’obiettivo di sviluppare competenze tecniche e trasversali che vadano oltre il ruolo professionale specifico. Questo impegno costante consente ai collaboratori di evolvere professionalmente e di sentirsi parte attiva di un progetto che valorizza il talento e ne accompagna la crescita nel tempo. Ma il senso di appartenenza si costruisce anche attraverso esperienze condivise. “Noi di Due Torri Spa offriamo ai nostri collaboratori la possibilità di vivere le emozioni di una partita del Bologna FC allo stadio Renato Dall’Ara, rafforzando così il legame con il territorio e la comunità. Allo stesso tempo, promuoviamo uno stile di vita sano e partecipativo attraverso tornei di calcio e basket interaziendali all’interno dell’Interporto di Bologna, occasioni informali di inclusione e coesione tra colleghi”, conclude Franceschelli.