L'area Human Resources organizza conferenze e corsi di formazione per una community di 20.000 manager delle Risorse Umane. Gli eventi flagship dell’area sono 2 tra i più importanti appuntamenti in Italia in ambito HR: European HR Directors Summit e HR Business Conference.
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"Il talent shortage è causato da diversi fattori: da una parte, è innegabile ormai come oggi esista una difficoltà per il mondo universitario e formativo nell’adeguarsi a continui e sempre più veloci mutamenti dello skill mix richiesto dalle aziende (sempre più ibridato e multidisciplinare);, dall’altra, è altrettanto evidente come ci sia un diverso approccio al lavoro e alle imprese da parte dei candidati (più) validi che, avendo gran mercato, valutano con maggior attenzione, rispetto al passato, i valori, la mission e le modalità di lavoro delle organizzazioni con cui entrano in contatto”. E’ questa la fotografia che propone Marco Russomando, Chief Human Resources & Organization Officer di Illimity, parlando di un fenomeno come quello della carenza di talenti, soprattutto in ambito Stem, che sta influenzando il mercato del lavoro a livello globale. Un punto di vista che abbiamo avuto l'opportunità di approfondire, in occasione della presentazione della ricerca dal titolo “L’evoluzione dell’Employer Branding per fronteggiare la Talent Shortage”, realizzata da Business International – Fiera Milano, in collaborazione con Indeed Italia, e presentata nel corso dell'ultima edizione del Business Leaders Summit, tenutosi a Milano lo scorso 14 e 15 giugno 2023. “Al contempo, inoltre – prosegue il manager –, le nuove generazioni di professionisti hanno minore affezione (o se vogliamo un diverso legame) nei confronti del proprio datore di lavoro”.
Un aspetto empatico, questo, che riflette un po’ la riduzione di quell'“attaccamento alla maglia”, come si dice in gergo sportivo, che rende più delicato il rapporto tra azienda e talento e propone un rischio di ritorno sull’investimento nelle risorse che rende sempre più complesse le scelte da mettere in campo per le organizzazioni. “In questo modo, però – sottolinea Russomando –, si crea il paradosso dell’investimento a termine, ovvero la necessità per le aziende di puntare molto sulla formazione e lo sviluppo dei talenti che poi – spesso – scelgono, magari dopo 3 o 5 anni, di intraprendere altri percorsi lavorativi, perché vedono le aziende come tappe (funzionali se non strumentali) al loro percorso e, dunque, per decidere di “restare o investire” a medio-lungo termine, queste ultime devono essere in grado di offrire loro, periodicamente, nuove opportunità di apprendimento e d’impatto organizzativo”. Una vera e propria sfida da non sottovalutare, questa, anche perché impone alle imprese di mettersi in gioco a 360 gradi, senza filtri e soprattutto con la voglia di trasformarsi profondamente, tanto nei processi, quanto negli approcci e, soprattutto, nella cultura di un nuovo modo sia di fare business, sia di lavorare.
Una modalità, tutta da scoprire, che richiede l’attivazione di nuove strategie per rimanere competitivi sotto il profilo della talent attraction e della talent retention. “Le strategie per affrontare il fenomeno della talent shortage – suggerisce il manager –, idealmente, dovrebbero tenere in considerazione tre asset fondamentali. In primis, le aziende dovrebbero adottare una logica o modello identitario ed ecosistemico che consenta di definire e comunicare cosa si è e cosa si offre in ottica di People Value Proposition. Solo così si può dare vita ai presupposti per un rapporto di followership evoluta e di fellowership”. Due concetti di assonanza valoriale (oltre che linguistica) e di prospettiva, orientati alla cura e alla guida o mentorship, ma anche a una libertà responsabile che offra l’opportunità di generare un terreno fertile dove supportare l’espressione del potenziale individuale. “In secondo luogo, poi – prosegue Russomando –, è fondamentale plasmare tutti i processi sulla base della PVP, con un’attenzione particolare alle performance e al training. In terza istanza, infine, l’aspetto più importante da valorizzare rimane quello di ascoltare costantemente le proprie risorse, adottando le micro e le macro correzioni che favoriscono un ambiente di lavoro sano, sostenibile e generativo”. Tre fattori essenziali, questi, a cui si aggiunge poi un ultimo elemento da non sottovalutare se si vuole generare quell’affezione all’impresa che consenta un percorso condiviso di lungo periodo tra datore di lavoro e talent. “In questo contesto di generazione di valore e di valorizzazione delle nuove generazioni di professionisti e non solo – evidenzia il manager –, sicuramente, l’Employer Branding, se genuino, ovvero se improntato al racconto di chi si è e non di cosa si vorrebbe o dovrebbe essere, è un volano potentissimo per la talent acquisition. Per renderlo efficace, però, è necessario puntare sempre di più sul dar voce alle proprie persone, mettendo al centro il loro “sentire”, il loro “immaginare e innovare”, e investendo sulla narrazione della propria storia”. Già, perché ogni organizzazione ha un passato da descrivere e spiegare.
Un percorso di successi e sperimentazioni che ha portato all’acquisizione di nuove competenze e risultati. “Se guardiamo oggi – continua Russomando – alle competenze più efficaci che le aziende devono fare proprie attraverso l’ingresso di nuovi talenti, in questo contesto digitale, fluido e incerto, possiamo notare come empatia, agilità di pensiero e di azione, apertura alle diversità, lungimiranza, pazienza, autoregolazione emotiva e antifragilità (che va oltre la “semplice” resilienza, perché è la caratteristica di chi impara, o meglio, evolve da situazioni avverse) siano le skill più importanti su cui concentrare la propria ricerca e la propria attenzione. Per attrarre le risorse giuste in questo senso, però, le organizzazioni dovranno saper comunicare e trasmettere la propria identità e il proprio impegno verso le persone, riuscendo a essere consistenti ed esemplari nel dire quel che si pensa e – soprattutto – fare quel che si dice, anche perchè ormai il fact checking è un’attività sempre più diffusa a tutti i livelli e questo, dal punto di vista dei professionisti, screma alla base, e quasi automaticamente, le realtà meritevoli da quelle che non lo sono”.
Carenza di talenti, mancanza di competenze IT, difficoltà nel trovare professionisti con consolidate skill digitali e decisa criticità nell’acquisizione di lavoratori dotati di competenze trasversali, come il time management, l’empatia o la collaborazione. In un mondo sempre più digitalizzato e nel quale il bilanciamento tra vita privata e vita lavorativa e le priorità delle persone sono in continuo mutamento, il paradigma lavorativo sta conoscendo un’evoluzione che in pochi si aspettavano o avevano previsto.
Alcuni attribuiscono la causa di tutto questo alla pandemia da Covid-19, che ha reso più complessi i processi internazionali e la gestione della sfera personale. Altri, invece, sostengono che l’aumento dello smart working, inteso esclusivamente come telelavoro, unito alla crisi economica, alle nuove esigenze personali e professionali e a una lentezza nell’adattarsi alle nuove richieste dei lavoratori da parte delle aziende abbia impattato negativamente sulle dinamiche dei flussi occupazionali.
Di fatto, però, il problema diventa sempre più concreto e attuale: il fenomeno della talent shortage, ovvero la carenza di talenti, ormai, sta coinvolgendo tutti i tipi di impresa in qualunque settore. A tal punto che, secondo la ricerca realizzata dal World Economic Forum “The Future of work 2023”, due su cinque (41%) degli economisti intervistati si aspettano che i mercati del lavoro rimarranno “contratti” nelle economie avanzate nel corso dell’anno, mentre il 45% degli intervistati ritiene che sia “abbastanza” o “estremamente probabile” che la carenza di talenti eserciti un freno all’attività imprenditoriale nel prossimo futuro. Gli intervistati, inoltre, hanno espresso fiducia nello sviluppo della propria forza lavoro esistente, tuttavia, hanno dimostrato meno ottimismo per quanto riguarda le prospettive di disponibilità di talenti necessari alla crescita aziendale nei prossimi cinque anni. Di conseguenza, le organizzazioni hanno identificato la carenza di competenze e l’incapacità nell’attrarre talenti come le principali barriere per la trasformazione della propria impresa, e del proprio settore di riferimento più in generale.
Dati, questi, che hanno portato Business International – Fiera Milano, in collaborazione con Indeed Italia, a sviluppare il report dal titolo “L’evoluzione dell’Employer Branding per fronteggiare la Talent Shortage”, al fine di comprendere a fondo quali possono essere le strategie da mettere in campo per poter ridurre uno skill gap sempre più marcato e in grado di diminuire drasticamente la competitività delle organizzazioni nel prossimo futuro. L’analisi, curata da Stefano Faccioli, Head of Organizational Development and Training della Fondazione Policlinico Gemelli di Roma, e condotta tra febbraio e aprile 2023 su un campione di oltre 100 direttori HR attivi in aziende di medie e grandi dimensioni, operanti sul territorio italiano, si propone quindi di indagare quale sia lo stato dell’arte delle priorità da affrontare e delle tattiche da adottare per consentire alle imprese di superare questa sfida da non sottovalutare.
“La talent shortage, oggi – ha commentato Faccioli –, è un fenomeno che subisce l’influenza di molteplici fattori, ma probabilmente il miglior modo per fronteggiarla, da parte delle organizzazioni, è capire che lo scenario del lavoro e le esigenze dei lavoratori sono enormemente cambiati. Questo è un processo irreversibile ormai. Ascoltare questa richiesta di soddisfazione personale e necessità di riequilibrio delle dinamiche tra lavoro e vita privata, diventa così una delle chiavi fondamentali per rispondere in maniera efficace alla situazione”. Un paradigma che, per essere messo in atto, però, ha bisogno di un concreto cambio di approccio da parte delle aziende, ma anche da parte dei manager che le guidano, oltre che un nuovo modello organizzativo e culturale che guidi il mondo del business più in generale verso il superamento di frontiere che fino a qualche tempo fa sembravano invalicabili e che ora risultano essere l’unica via da percorrere per poter rimanere competitivi sui mercati, dall’attenzione alla sostenibilità ambientale alla diversity and inclusion e dall’ampliamento del bacino di recruitment per la talent acquisition alla responsabilità sociale delle attività imprenditoriali. “La competizione per i talenti – ha commentato Ilaria Caccamo, Managing Director di Indeed Italia –, la scarsità di competenze, il cambio di preferenze dei candidati dal dopo pandemia, sono alcuni degli elementi che stanno scatenando una tempesta perfetta in cui si trovano coinvolte le aziende alla ricerca di candidati. Oggi per queste aziende l’employer branding rappresenta sia un’opportunità che una sfida. Spesso si ritiene che l’ambito di questo strumento sia la comunicazione, ma il tassello chiave che ne costruisce le fondamenta è il valore. L’employer branding consente alle aziende di rendere il proprio valore concreto, tangibile e differenziante. Così da attrarre nuovi candidati ma anche influenzare i propri dipendenti. Grazie alle gestione attiva della proprio brand aziendale le aziende riescono ad ascoltare, agire e condividere in modo più mirato ed efficace. Il mondo del lavoro sta cambiando, per il meglio”. Un’attività di sicuro impatto, su cui le aziende italiane – come dimostrano i dati della ricerca – si stanno impegnando con grande dedizione, mostrando come, nonostante le difficoltà e le criticità del momento, ci siano già alcuni esempi d’eccellenza che hanno deciso di muoversi con coraggio per offrire nuove opportunità ai professionisti e al contempo una nuova visione del fare impresa.
Più di tre quarti dei laureati in Italia trova lavoro entro un anno, ma le aziende oltre al diploma richiedono sempre più competenze digitali e “soft skills” (almeno una su cinque). Il 70% delle offerte di lavoro per laureati sono concentrate al Nord. Le imprese puntano, in particolare su 116 profili ad elevata richiesta, che fanno capo a 5 macro aree. Molto ricercati account manager, responsabili logistica e distribuzione ed esperti contabili.
È quanto emerge dalla ricerca “Università e Imprese per lo sviluppo dei talenti”, realizzata da Randstad e Fondazione per la Sussidiarietà (FpS), che sarà presentata oggi al Meeting per l'amicizia fra i popoli di Rimini. Lo studio analizza la domanda di lavoro di laureati negli annunci online del 2022 e le strategie di sviluppo dei talenti delle imprese italiane. Un'analisi che abbiamo voluto approfondire meglio, anche in vista della prossima edizione del HR Business Summit che si terrà il prossimo 27 e 28 novembre 2023 nel corso del Business Leaders Summit presso lo Spazio Field all'interno della splendida cornice di Palazzo Brancaccio a Roma.
“La quota dei laureati tra i 25 e i 34 anni in Italia è tra le più basse nei paesi OCSE - commenta Marco Ceresa, Group CEO di Randstad Italia -, eppure l’indagine ribadisce che una laurea in Italia oggi è ancora un importante fattore di protezione dall’inoccupazione. È fondamentale, quindi, mettere in campo azioni concrete per contrastare la dispersione scolastica e incentivare i giovani a proseguire gli studi. La ricerca evidenzia poi l’esistenza di molte professioni “in comune” in uscita da percorsi di laurea molto diversi, per una similarità di competenze. È importante, di fronte alla scarsità di talenti del mercato unita ai trend demografici allarmanti, che le aziende valutino i profili da inserire a partire dalle reali competenze possedute dai candidati, oltre che dal titolo di studio”.
Le competenze digitali, rivela la ricerca Randstad – FpS, sono ormai pervasive in tutti gli annunci online, con picchi del 61% nell’ICT e del 53% nella statistica. Ma l’incidenza del digitale è significativa anche negli annunci relativi a marketing (19%) e area giuridica (15%). Le soft skill si rivelano importanti per tutte le aree: almeno una competenza su cinque per svolgere la professione è trasversale. Le soft skill più richieste sono: saper lavorare in gruppo, sviluppare idee creative, adattarsi al cambiamento, comunicare con i clienti, autonomia, identificarsi con gli obiettivi aziendali.
Le posizioni di lavoro offerte nel 2022 ai laureati per i 116 profili sono concentrate al Nord (70%). In testa tra le regioni c’è la Lombardia, con il 30% degli annunci, seguita dall’Emilia Romagna (13%), dal Veneto (13%) e dal Lazio (11%). La Campania, dove c’è uno dei più elevati tassi di disoccupazione giovanile, raccoglie solo il 5% degli annunci.
Le aziende sono alla ricerca principalmente di laureati in discipline tecniche e scientifiche, ma prendono in considerazione anche le lauree umanistiche valorizzando gli aspetti motivazionali e il potenziale, e integrando le competenze tecniche con la formazione interna. Nel primo esame dei cv le imprese valutano soprattutto la carriera universitaria, ma poi si concentrano su soft skill e attitudini personali dei candidati. La ricerca, inoltre, individua 116 professioni per laureati altamente ricercate negli annunci di lavoro online nel 2022. Nell’area Economia e Statistica, si segnalano in particolare 9 professioni ad alta domanda: account manager, responsabile logistica e distribuzione, esperto contabile, direttore generale del marketing, consulente di rischio assicurativo, analista di business, responsabile di prodotto, manager finanziario, responsabile della catena di fornitura. Nell’area Giuridica, Umanistica e Scienze Sociali 7: responsabile di reparto, responsabile dei servizi, dirigente delle risorse umane, avvocato, assistente sociale, psicologo, responsabile di questioni regolamentari. Nell’area Architettura e Design sono altamente ricercati 8 profili: amministratore di sistemi TIC, ingegnere energetico, architetto, ingegnere industriale, ingegnere meccanico, ingegnere civile, sviluppatore web e ingegnere elettronico. Nell’area Scientifica c’è alta domanda per 7 professioni: chimico, pianificatore territoriale, ingegnere elettronico, data scientist, informatore medico-scientifico, analista software, biologo. Nell’area Informatica, si segnalano 6 profili: amministratore di sistemi TIC, sviluppatore web data scientist, designer grafico, responsabile della gestione community online, project manager TIC.
Una laurea in Italia è un importante fattore di protezione dall’inoccupazione, correlato a una maggiore permanenza in stato di occupazione, maggiore livello salariale e un più rapido rientro al lavoro in caso di uscita. A un anno dal conseguimento del titolo, il tasso di occupazione dei laureati è il 75% per il primo livello e il 77% per i magistrali biennali, per arrivare al 90% per entrambi dopo cinque anni (fonte Almalaurea). Tuttavia, la quota di laureati tra i 25 e i 34 anni in Italia nel 2021 è il 21%, un livello tra i più bassi dei paesi Ocse.
“La ricerca conferma che gli studi universitari sono un volano per l’accesso al mondo del lavoro”, afferma Giorgio Vittadini, Presidente della Fondazione per la Sussidiarietà, “Nelle selezioni le aziende guardano ai voti, al percorso accademico, ma sempre di più allo sviluppo di competenze trasversali e soft skill come: l’apertura mentale, la capacità di collaborare, la sicurezza, la resilienza, la creatività, la flessibilità, il problem solving. In un mondo del lavoro in cui l’obsolescenza dei mezzi di produzione, delle tecniche, dell’organizzazione aziendale è rapidissima, puntare sulle soft skill sarà strategico perché permetterà di continuare a “imparare a imparare”.
Dall’analisi delle competenze richieste negli annunci di lavoro per laureati in Italia, emerge come quelle digitali siano pervasive a tutte le aree, con un picco del 61% di annunci in cui sono richieste per profili ICT e 53% per quelli di statistica. Ma le competenze digitali sono significative anche nelle scienze umane, come l’area psicologica, giuridica (15%) e del marketing (19%). Le competenze professionali - quelle caratterizzanti la professione - sono significative in tutti i macrogruppi, ma raggiungono il picco nel Marketing, dove sono richieste nel 50% dei casi, e il minimo nell’ICT (18%). Le skill trasversali, infine, sono importanti per tutte le aree, e ancor di più nelle aree disciplinari votate al rapporto umano e all’interazione, come per quella dell’Educazione e formazione, Psicologia e Giuridica (53%).