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CHIMIRRI: DALLA DECENTRALIZZAZIONE DEL DECISION MAKING AL CULTURAL FIT, IL FUTURO DELLE HR È HUMAN CENTRED

di Matteo Castelnuovo | 20/09/2022

«L’elemento valoriale è la guida per il nostro futuro nell’attrazione dei talenti e non solo». Inizia così il ragionamento di Gianfranco Chimirri, Global Human Resources Director di Unilever, commentando – nel corso di una chiacchierata realizzata durante l’HR Directors Summit, all’Interno di Business Leaders, a latere della presentazione della ricerca “L’Employer Branding nell’era della Great Resignation: attrarre i talenti nel nuovo mondo del lavoro” elaborata da Business InternationalFiera Milano, in collaborazione con Indeed – la trasformazione, o se vogliamo la rivoluzione, in atto nel mondo del lavoro. «I talenti – prosegue il manager – oggi hanno bisogno di trovare un meaningful job. Ciò significa che cercano un’azienda in cui si possano ritrovare e identificare, trovare il senso (why) di cosa fanno ed avere un impatto positivo sulla vita degli altri. Il cultural fit risulta così essenziale tanto per il professionista, quanto per l’organizzazione. Solo con quello si può trovare un reciproco e duraturo rapporto di successo». Un obiettivo che Unilever ha ben presente. A tal punto da riuscire a essere l’employer of choice per i professionisti di 65 Paesi nel mondo. «Ciò che potrebbe stupire, in questo senso, però – tiene a sottolineare Chimirri –, è il fatto che questo posizionamento non derivi dall’offerta di uno stipendio più alto rispetto ai mercati in cui operiamo, anzi, i nostri salari sono volutamente inseriti sulle medie di mercato, ma è uno scenario che si definisce perché le persone si realizzano professionalmente ed umanamente nell’organizzazione. Quando, infatti, si realizza un’attività che ogni giorno esprime il proprio purpose, allora si riesce a trovare la qualità della vita delle persone all’interno dell’organizzazione stessa».

YOU ARE MORE THAN YOUR JOB

Un meccanismo di appartenenza, quindi, che si sviluppa automaticamente e spesso promuove risultati migliori, rispetto a quelli ottenuti sulla base delle vecchie dinamiche di business. «Oggi lo slogan da tenere sempre presente è: “You are more than your job”. Può sembrare solo un claim, in realtà, ma, se diventa un cardine essenziale della logica aziendale, consente al professionista di voler mettersi in gioco in prima persona per raggiungere quell’extra mile che si traduce in maggiore engagement, produttività e quindi migliori risultati di business. (happy people producono happy business)». Una visione a campo largo e lungo periodo, di chiaro stampo internazionale, questa, che oggi, però, viene ancora più enfatizzata dalla trasformazione digitale in atto. «In senso generale, dal nostro punto di vista – commenta il manager –, più tecnologia c’è, più va evidenziato l’aspetto umano. Noi, per esempio, utilizziamo il precision employer branding, o data driven employer branding, proprio per valorizzare l’elemento umano. Può apparire come un ossimoro, infatti, ma da anni abbiamo abbandonato le logiche da “career day”, per focalizzarci sull’utilizzo delle analytics al fine di individuare i target di candidati da attrarre, misurare le campagne social ed adattare i messaggi in funzione dei talenti cui parliamo. In questo modo per noi è più semplice andare a vedere se, effettivamente, c’è il cultural fit necessario per entrare in azienda». Un approccio quasi scientifico che cerca di trovare un equilibrio tra la sempre crescente informazione, messa in campo dai candidati nei confronti dell’organizzazione, e la necessità di costruire una community unita e coerente sotto un set di valori che siano in linea con un preciso purpose aziendale. «Il fenomeno della Great Resignation, o comunque di una maggiore attenzione ai valori presente da entrambe le parti – spiega Chimirri –, secondo me è un tema più generazionale che geografico. Per la generazione X, una volta, avere un buon lavoro ben retribuito era essenziale, mentre ai Millennial, adesso, serve proprio un meaningful job, come si diceva prima, che sia collegato a un buon work/life balance, ma che al contempo consenta loro di sperimentare il purpose in action, vivendo una leadership di valorizzazione e supporto non di controllo. Questi non sono più principi negoziabili».

LA TECNOLOGIA AL SERVIZIO DELLA QUALITA’ DI VITA

Un cambiamento strutturale che non può più essere ignorato a nessun livello e che ha cambiato, soprattutto in questi due anni di Pandemia, il modo di pensare delle persone. «Busy is the new stupid – scherza, ma nemmeno poi tanto, il manager –. Alla fine, magari, si è diventati CEO, ma si ha anche sfasciato la famiglia e non si ha prodotto nulla per la società e questo non è più accettabile per le nuove generazioni. I Millennial ormai stanno entrando nella stanza dei bottoni e quello che pensano diventerà presto decisivo. Basti pensare che i nuovi decision maker vivono già oggi modelli diversi. Usano la tecnologia per vivere meglio e non per guadagnare di più o avere un potere fine a se stesso. Una riflessione che, se seguita consapevolmente, dovrebbe portare anche le aziende a rivederne la logica di implementazione. «La tecnologia, in un’azienda globale come la nostra – continua Chimirri –, è un asset essenziale per creare un’unica community realmente interattiva e trasparente, producendo contemporaneamente un’enorme democratizzazione della comunicazione, della trasparenza operativa e organizzativa e dell’espressività. Per i nativi digitali questo è scontato, mentre per altre generazioni si è dovuto intraprendere un percorso di apprendimento per imparare a utilizzare i tool digitali. Il principio, però, rimane quello di assimilarli in maniera corretta per mantenere questa innovazione fondamentale, come deve essere, ma sempre e solo al servizio della crescita e dello sviluppo valorizzante delle persone».

L’EREDITA’ DEL COVID-19: L’IMPORTANZA DELLA CURA PER LE PERSONE

Una linea guida che, ovviamente, va perseguita nell’ottica di questa cura per le persone che, probabilmente, è uno degli insegnamenti e delle rivoluzioni culturali più importanti che il Covid ci ha lasciato in eredità. «Il mental wellbeing – aggiunge il manager – è stato uno dei problemi principali da gestire ai tempi del covid, sia per portare le persone a contribuire all’innovazione dell’azienda, sia alla collaboration. I nostri leader, in questo senso, hanno dovuto acquisire maggiori skill nell’empatia e nella intelligenza emotiva delle persone per capire come ribilanciare i carichi del work/life balance. Proprio per questo, l’esigenza primaria che hanno le aziende oggi è quella di sviluppare una leadership di servizio e caring per creare una cultura di feedback, trasparenza e valorizzazione. Questa è la strada da seguire in modo che le persone si formino e si sentano parte di una community inclusiva, diventando così più forti rispetto alle tentazioni di uscita dalla company. Quello che, infatti, non facciamo e non faremo mai è lavorare su temi transazionali o di retention. Dal nostro punto di vista, il problema da cui deriva la Great Resignation non è professionale, ma emotivo e a un problema emotivo bisogna dare una risposta emotiva. Piuttosto, lasciamo andare le persone, tenendo la porta aperta per dargli la possibilità di riflettere e poi, magari, farli ritornare». Il problema, dunque, sembra essere: come rinforzare questa cultura di leadership e di caring. «La vera sfida sta nella leadership – conferma Chimirri –, i leader fanno la cultura e all’interno della cultura le persone o diventano insoddisfatte e stressate o crescono e migliorano se stesse. La connessione tramite la tecnologia ci espone a trasparenza e democratizzazione. Un uomo solo al comando non esiste più. Ci deve essere una decentralizzazione del decision making schiacciato verso il basso per avvicinarlo sempre di più al cliente. Se non si fa questo, non si potranno più dare risposte alle nuove generazioni e se non si hanno i contenuti per farlo non si va da nessuna parte».