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UN EMPLOYER BRANDING OLISTICO E INTEGRATO NEL SISTEMA AZIENDALE: LA RISPOSTA ALLE ESIGENZE DI MILLENNIAL E GEN Z

di Matteo Castelnuovo | 06/09/2022

«Se penso che per la prima volta ho approfondito il tema dell’employer branding nella mia tesi di laurea, mi vengono in mente due cose: di passi avanti ne abbiamo fatti pochi sul tema (con i dovuti distinguo del caso); gli eventi di questi ultimi anni sono stati invece un grande acceleratore in questo senso». È questa la prima reazione di Vincenzo Di Marco, Direttore Risorse Umane, Qualità e Sicurezza di Pellegrini, alla domanda: cosa significa oggi per lei employer branding? Una risposta dalle due facce - data a margine della presentazione della ricerca "L'Employer Branding nell’era della Great Resignation: attrarre i talenti nel nuovo mondo del lavoro", realizzata da Business International - Fiera Milano, in collaborazione con Indeed e tenutasi il 14 giugno 2022 nel corso del HR Directors Summit all'interno del Business Leaders Summit - che, da una parte, sottolinea l’impatto propulsivo scatenato dalla pandemia nei confronti di un’attività, che già stava crescendo negli ultimi anni, e, dall’altra però, evidenzia quanto lavoro ci sia ancora da fare per raggiungere l’obiettivo. «Forse abbiamo definitivamente compreso che non è solo una questione di “risorse umane”, ma che l’employer branding è un qualcosa che interessa l’azienda nel suo complesso – rincara il manager –. "La differenza la fanno le persone” e “il dipendente al centro” sono alcuni dei claim che sentiamo spesso, ma che altrettanto spesso restano confinati nella carta dei valori aziendali. Quando davvero si mettono al centro le persone, il processo culturale di employer branding si attiva: marketing, comunicazione, operations e top management convergono su linee di azione comuni, capaci di alimentare il valore del brand e il senso di appartenenza».

IL VALORE DELL'ASCOLTO

Un sentimento complesso da creare e che deve chiaramente essere sostenuto da azioni concrete. «La nostra azienda – prosegue Di Marco –, da sempre, è attenta all’ascolto del cliente e, in questi due anni, si è quindi concentrata per portare questa skill, sempre più fondamentale, anche al suo interno. Ascoltando le nostre persone, abbiamo compreso a fondo come le cose siano cambiate. I professionisti non lavorano soltanto per un’azienda, ma per ciò che quell’azienda rappresenta, la sua storia, la sua cultura, il suo sistema di valori e i messaggi che manda al mondo. Le organizzazioni ora devono saper creare un workplace flessibile e rispondente alle diverse esigenze personali e professionali dei lavoratori».

L'ENZIMA DELLA DIGITALIZZAZIONE CHE CAMBIA IL MONDO DEL LAVORO

Il contesto socio-economico d’altronde è stato sconvolto dagli eventi degli ultimi anni e sono cambiate le regole del gioco. «La famosa piramide dei bisogni – commenta il manager –, almeno quelli lavorativi, è stata stravolta. L’enzima di questa accelerazione è la digitalizzazione. In questo scenario si muovono agevolmente i nativi digitali, le cui regole di ingaggio sono molto differenti anche solo dalla generazione che li precede». In tale condizione, però, employer branding e talent acquisition hanno diversi strumenti per essere migliorati. «lo sviluppo delle persone – indica Di Marco –, in questo senso, rimane l’asset principale su cui puntare, rendendo la formazione continua e l’up-skilling del personale un elemento di attraction e una leva strategica dell’employer branding e inserendole all’interno di una strategia di comunicazione capace di raggiungere i potenziali candidati, ma anche gli stakeholder dell’azienda. Una volta fatto questo, però, bisogna anche pensare allo sviluppo del leadership management. Avere dei manager con un giusto grado di leadership aiuta non solo a selezionare la persona, ma anche ad avviare l’employer branding aziendale. In terza istanza, infine, si deve guardare alla capacità di comunicare con uno storytelling efficace sia internamente, sia esternamente, focalizzandosi concretamente su flessibilità, ascolto e work-life balance».

GLI EFFETTI DELLA PANDEMIA

Solo così, secondo il direttore HR di Pellegrini, si potranno ridurre gli effetti del fenomeno della great resignation, i cui dati ormai non possono essere sottovalutati, ma d’altra parte è anche pericoloso darne una interpretazione strutturale. «Dobbiamo partire, infatti, dall’assunto che in Italia il mercato del lavoro non è mai stato particolarmente fluido – avverte il manager –. Detto questo, è chiaro come la pandemia abbia avuto effetti traumatici sulle persone a livello globale, modificando gli equilibri emotivi. In concomitanza - e forse in conseguenza - la dimensione collettiva ha poi contribuito a creare un effetto valanga sulla voglia di cambiamento e sul senso di valorizzazione del presente. In tale contesto aderendo alla visione dello psicologo De Carlo è possibile dire che “il trauma psicologico ha esaltato il concetto del carpe diem”, che può aver prodotto l’azione di cambiare e/o migliorare la propria posizione lavorativa. In tale scenario, la way-out più comoda, anche da un punto di vista sociale è il cambio di lavoro. Vi è poi un secondo fattore da considerare, ossia la dimensione valoriale che anima le nuove generazioni di lavoratori che è disancorata dai sentimenti di fidelizzazione e staticità lavorativa. Fino a qualche tempo fa, infatti, ci hanno insegnato che il sinallagma era basato sulla retribuzione. Oggi, invece, sempre più persone riscrivono il loro personale sinallagma, con la retribuzione che perde posizioni, in favore di elementi apparentemente intangibili, ma sempre più importanti nella valutazione del work-life balance. In questo senso Millennials e Z Generation misurano costantemente l’aderenza dei propri valori e principi ai valori e principi dell’azienda per cui lavorano. In caso di disallineamento la prima risposta è la ricerca di un nuovo lavoro, un nuovo mondo ove poter riconcorrere nuove ambizioni professionali (o fuggire da delusioni) e/o di un ambiente armonico rispetto al proprio sistema valoriale. Sono i valori, l’impatto sociale/ambientale/morale/etico del lavoro svolto, lo scopo e la vision dell’azienda che incidono sulle scelte lavorative e quindi anche su quella di rassegnare le dimissioni. La sfida imposta da questo nuovo ordine di priorità e nuova cultura del lavoro è, quindi, prima di tutto tradurre l’employer branding in un processo olistico ed integrato nel sistema aziendale, che ha inizio con la fase di recruiting e talent acquisition e prosegue il suo corso durante tutto il “life cycle” del dipendente».

IL RIBALTAMENTO DEL PARADIGMA AZIENDA-CANDIDATO

Ci si trova così di fronte a un ribaltamento a 180° del paradigma per cui “io, azienda, scelgo te, candidato”. «Oggi – puntualizza Di Marco –, spesso, è il candidato che sceglie la realtà in cui lavorare o non lavorare. Da anni assistiamo a una modifica del paradigma di ingaggio del lavoratore ed è sempre più chiaro come tale cambiamento sia fortemente influenzati dalla modifica del panel di riferimento. Millennials e generazione z diventano protagonisti, mentre si assiste alla progressiva uscita di scena dei baby boomers, la generazione che ha segnato gli ultimi 40 anni con valori quali la realizzazione personale, il sogno americano, la posizione sociale, la gerarchia, il “vivere per lavorare”. Elementi molto differenti dai valori dei giovani di oggi. Diventa chiaro, quindi, che se la prima fase è dunque quella dell’ascolto e della non banalizzazione di bisogni e dei desiderata il passo immediatamente successivo è quello di non concentrarsi solo sulla dimensione lavorativa, ma di guardare a formazione, crescita professionale e cultura del feedback per tradurre la cura del benessere organizzativo e delle persone in azioni e iniziative concrete, ben targettizate e in sintonia con i core value dell’azienda».