Al centro dei trend attuali, che guidano il mondo del business, il tema del benessere organizzativo non è più un nice to have, ma una priorità che le imprese non possono più ignorare. Il disagio psicologico e le tensioni emotive sono, ormai, un fenomeno diffuso nelle organizzazioni: secondo l’8° Rapporto Censis-Eudaimon, quasi un terzo dei lavoratori italiani ha sperimentato forme di burnout, mentre oltre il 70% dichiara di aver vissuto ansia o stress legati al lavoro. Numeri, che spiegano perché l’83% dei dipendenti consideri oggi il benessere una priorità assoluta, soprattutto all’interno della GenZ.
Nello scenario attuale, non si tratta più soltanto di garantire stipendi competitivi o benefit materiali: le persone, il nucleo fondante delle imprese e in particolare le generazioni più giovani, chiedono ambienti di lavoro in cui sentirsi ascoltate, valorizzate e in equilibrio con la propria vita privata.
LA RICHIESTA DI FORMAZIONE AUMENTA A DISMISURA
In questo contesto, la formazione diventa una leva strategica per le imprese. Solo nel 2025 Tack TMI Italy ha registrato, nel nostro Paese, un aumento del +244% della domanda di percorsi formativi dedicati al benessere organizzativo. Un dato che non sorprende e che non rappresenta solo una risposta all’emergenza stress e burnout in atto, ma che ci fa riflettere sul cambio di paradigma a cui stiamo assistendo: ridurre il turnover e promuovere la retention dei talenti, sono oggi obiettivi di business tanto quanto l’aumento della produttività aziendale.
LE 5 COMPETENZE CHIAVE PER IL BENESSERE
Ma quali sono, oggi, le competenze che un professionista deve tenere in considerazione per fare davvero la differenza all’interno di un team di lavoro, aiutando a migliorane il clima e quindi la produttività? Secondo gli esperti internazionali di Learning & Developement, in questo senso, le aree d’azione più importanti, sono cinque:
Queste cinque aree rappresentano un cambio di prospettiva: non più soft skill da affiancare alle hard skill, ma veri e propri pilastri della competitività delle risorse aziendali. In un momento storico segnato da iperconnessione, trasformazioni digitali e crescente attenzione al work-life balance, saper coltivare resilienza, empatia e consapevolezza diventa tanto importante quanto padroneggiare strumenti e processi. Tutte abilità, queste, che non solo migliorano la performance individuale, ma rafforzano la coesione dei team e la capacità dell’impresa di adattarsi ai cambiamenti.
DAL QUIET QUITTING ALLA CULTURA DELLA FIDUCIA
Sotto questo profilo, come sottolinea anche Irene Vecchione, Amministratore Delegato di Tack TMI Italy (Gi Group Holding): “Il ruolo della formazione è essenziale perché una persona che sviluppa le proprie skill in quest’ottica non è solo un collaboratore più motivato, resiliente ed efficace, ma anche più soddisfatto e aperto al cambiamento”.
Un approccio, che, però, in questi anni si è scontrato con fenomeni di portata globale come, grandi dimissioni, quite quitting e sovraccarico cognitivo, che hanno messo a dura prova le imprese ed i lavoratori
Dinamiche che hanno reso evidente come il benessere organizzativo non possa essere affrontato con soluzioni spot o iniziative isolate, ma serva un approccio sistemico, in grado di coinvolgere leadership, processi e cultura aziendale. Da questo punto di vista la formazione, diventa un catalizzatore, in quanto non solo sviluppa competenze, ma contribuisce a creare ambienti in cui le persone si sentono ascoltate, valorizzate e parte di un progetto comune. È proprio questa dimensione di fiducia reciproca che permette alle imprese di superare la logica del “disimpegno silenzioso” e di trasformare le difficoltà in nuove opportunità di crescita condivisa.
BENESSERE ORGANIZZATIVO: LA RADICE DELLA TRASFORMAZIONE
In conclusione, il benessere organizzativo non è un lusso, ma una condizione necessaria e un percorso continuo, capace di far coesistere aspetti tecnici e umani. Solo seguendo questo schema le aziende potranno uscire vittoriose dalle sfide di un mercato in continua trasformazione, rispondendo al task iniziale: trasformare il benessere dei propri collaboratori in vantaggio competitivo.
L’Italia si conferma poco attrattiva sul mercato del lavoro internazionale. Cresce, invece, il numero di professionisti italiani che cercano opportunità all’estero. È quanto emerge da un’analisi di Indeed che ha analizzato le tendenze dell'immigrazione per motivi di lavoro in Europa e nel mondo rilevando un calo generale dell’interesse a lavorare al di fuori del proprio paese di residenza.
CALA L’INTERESSE PER POSIZIONI DI LAVORO ALL’ESTERO
A livello mondiale, la quota di persone interessate a nuove opportunità professionali in Paesi diversi da quello di residenza è aumentata costantemente negli anni immediatamente successivi alla pandemia, raggiungendo il picco nell'estate del 2023 e mantenendosi elevata per gran parte dell'anno successivo. A partire da agosto 2024 e fino all'inizio del 2025, l'interesse per opportunità all'estero è calato significativamente, in concomitanza con il raffreddarsi dei mercati del lavoro mondiali e con lo sviluppo di orientamenti politici più inclini a politiche di immigrazione più restrittive. L'interesse di chi cerca lavoro all’estero (misurato come percentuale di clic totali sugli annunci di lavoro di Indeed da parte di persone con indirizzi IP esterni a quel paese) è salito dal 2,2% nel marzo 2020 a un picco globale del 3,5% a metà 2023. Tra agosto 2024 e marzo 2025, invece, la percentuale è precipitata da un 3,4% relativamente stabile a un minimo post-pandemia del 2,3%. “Nonostante le mutevoli dinamiche globali - spiega Alexandre Judes, economista Hiring Lab di Indeed -, la ricerca di lavoro all'estero si è mantenuta vivace nel post-pandemia. Tuttavia, dopo una spinta iniziale alimentata dalla ripresa economica e dalla revoca delle restrizioni di viaggio, l’interesse ha recentemente iniziato a diminuire in modo significativo. Questo declino globale potrebbe essere attribuibile al rallentamento dei mercati globali e a politiche migratorie più stringenti. I prossimi anni saranno determinanti per comprendere se questo calo rappresenti una flessione temporanea o un cambiamento a lungo termine negli atteggiamenti verso il lavoro all'estero".
ITALIA: INTERESSE STAGNANTE DAL 2020
A differenza di quanto è avvenuto a livello internazionale, l'interesse dei candidati stranieri per le posizioni lavorative in Italia è stagnante dal 2020. Complessivamente, dal 2018 al 2025, la quota di ricerche di lavoro verso l’Italia effettuate da persone residenti in altri Paesi è scesa dal 2,6% al 2,1%. Un dato che contrasta con la tendenza osservata con la vicina Francia, che distinguendosi come unicum a livello internazionale, registra un interesse in continua crescita dalla pandemia. La quota di ricerche di lavoro in Francia effettuate dall'estero è salita dal 2,1% di maggio 2020 a quasi il 3,8%. Parallelamente, sempre più professionisti italiani guardano oltre confine. Dopo il calo registrato tra il 2018 e il 2021 - fino al minimo del 2,7% di maggio 2021 - le ricerche di lavoro all’estero da parte di persone basate in Italia sono aumentate in maniera costante, attestandosi al 4,4% del totale delle ricerche effettuate su Indeed ad aprile 2025. “La stagnazione nell'attrattiva di professionisti dall'estero indipendentemente dalle tendenze registrate a livello internazionale e, in contrasto, la vivace ricerca di posizioni all'estero da parte degli italiani - Continua Judes -, sono fenomeni strettamente correlati alle sfide strutturali del mercato, in particolar modo alla questione retributiva. I livelli salariali in Italia si posizionano tra i più bassi nell'Eurozona, un fattore che penalizza fortemente in termini di attrattiva e che può incentivare una parte della forza lavoro a esplorare orizzonti professionali internazionali in cerca di condizioni più competitive e di maggiori opportunità di crescita, come emerge anche dagli ultimi studi sulla questione”. Una recente indagine commissionata da Indeed a Censuswide, coinvolgendo 1000 persone di età maggiore di 18 anni interessate a nuove possibilità di occupazione, infatti, ha evidenziato come il 45% dei lavoratori italiani ritenga di essere pagato meno di quanto dovrebbe, con il 44% che sarebbe disposto a trasferirsi anche all’estero per uno stipendio migliore.
Quello delle competenze è un tema sempre più importante per i ragazzi e le ragazze che si affacciano su un mercato del lavoro ultra-competitivo, in particolare quelli della Gen Z, cioè i nati tra il 1995 e il 2012. Giovani che, secondo un recente studio britannico pubblicato dal magazine di settore HrNews dimostrano maggiore preparazione dal punto di vista tecnico e delle hard skills ma meno rispetto a quelle che sono le cosiddette soft skills.
LA DIFFICOLTA' DI COMUNICARE
L’indagine, svolta su oltre 2mila persone, tra le quali 590 datori di lavoro, ha infatti evidenziato come studenti e lavoratori nella fascia di età tra i 18 e i 25 anni registrino le maggiori difficoltà in quest’area. In particolare, secondo la ricerca, quasi 4 su 10 (37%) hanno difficoltà nella comunicazione interpersonale, quasi 3 su 10 (28%) nella resilienza e nel problem solving (27%). Le difficoltà comunicative possono avere un impatto diretto sulle competenze chiave richieste in ogni ufficio, dato che quasi un quarto (24%) dei Gen Z non ama le conversazioni telefoniche e a volte addirittura le evita del tutto. Anche i millennial, tuttavia, sono restii a rispondere al telefono, con il 21% che ne fa volentieri a meno, quando possibile.
IL RISCHIO DEL BASHING GENERAZIONALE
Tuttavia, a fronte di questi dati, quello che, secondo gli esperti, va assolutamente evitato è il cosiddetto “Gen Z bashing” e, in generale, il bashing generazionale, ovvero la tendenza a colpevolizzare i ragazzi e le ragazze delle nuove generazioni, affermando che gli appartenenti alle generazioni precedenti non facciano, non abbiano mai fatto e non farebbero mai così, perchè le nuove generazioni sono peggiori di quelle passate. “Non possiamo permetterci di leggere questi dati come una colpa da imputare alla Gen Z. È una narrazione non utile e fuorviante”, afferma Francesca Verderio, Training & Development Practice Leader di Zeta Service. “Queste fragilità – aggiunge - non sono un tratto anagrafico, ma il risultato di un sistema educativo e formativo che ha fatto il possibile ma non abbastanza e non aveva gli strumenti per evolvere con la stessa velocità del mercato del lavoro. Il Covid-19, con le sue lezioni a distanza e l’isolamento sociale, ha rallentato momenti di contatto fisico proprio in una delle fasi in cui si impara, a stare in relazione”.
SOFT SKILL QUESTE SCONOSCIUTE
Parole che trovano riscontro in ulteriori dati dell’indagine inglese: quasi metà (il 43%) delle persone intervistate ha infatti dichiarato di non aver ricevuto insegnamenti sulle competenze trasversali durante la più giovane età. Una tendenza che, però, proseguirebbe anche nel mondo del lavoro, con oltre un quarto (27%) dei partecipanti al sondaggio che ha riferito di non ricevere alcun supporto nello sviluppo delle competenze trasversali e il 43% che non partecipa ad alcuna formazione esterna o attività di team building. Eppure le soft skills nel lavoro sono fondamentali: anche in era di intelligenza artificiale i datori di lavoro, nello studio, hanno attribuito un’importanza maggiore alla capacità di svolgere un lavoro in squadra (55%) piuttosto che alle competenze informatiche, fondamentali solo per il 26%. Ma non tutto è perduto, le competenze relazionali si formano e si fondano fin dai primi anni di vita e possono essere certamente “risvegliate e riallenate”. Inoltre non possiamo dimenticare che, questa fase di fatica che queste generazioni hanno attraversato, ha certamente sviluppato capacità e punti di vista differenti dei quali le aziende e il contesto sociale devono fare tesoro.
“Oggi il contesto competitivo ci impone una riflessione strutturale: servono piani formativi che affianchino lo sviluppo tecnico a quello umano– continua Francesca Verderio di Zeta Service -. In un’epoca di AI, sono proprio le competenze che le macchine non replicano – ascolto, empatia, visione sistemica – a generare valore. Non solo, anche l’utilizzo efficace dell’AI è necessariamente connesso alla capacità umana di discernere, avere spirito critico e saperla usare come strumento ponendosi al di sopra e non lasciandosi influenzare o guidare da essa. Come professionisti e professioniste lo vediamo ogni giorno, sia internamente sia nelle consulenze che offriamo alle aziende per un più efficace e sostenibile sviluppo organizzativo: dai percorsi di coaching che aiutano le figure manager a integrare KPI e intelligenza emotiva, ai training blended per ruoli tecnici dove il problem solving convive con il pensiero empatico, fino ai progetti di team coaching che risolvono conflitti strutturali facilitando la collaborazione tra funzioni diverse. Anche per questo abbiamo deciso di formare le nostre persone, a partire dalle figure più junior, su soft skill come l’ascolto, la comunicazione per cooperare, lo spirito critico, il pensiero divergente, la propensione all’autosviluppo”.
LE 10 QUALITA' COMPORTAMENTALI DEL FUTURO
Ecco allora quali sono, secondo le figure esperte di Zeta Service, le 10 caratteristiche comportamentali che chi oggi entra nel mondo del lavoro dovrebbe allenare maggiormente, accompagnato anche dall’azienda nella formazione:
«Oggi, per un leader d'azienda, il tempo non è più una semplice risorsa da ottimizzare, ma un asset strategico supremo, la tela su cui si dipingono visione e resilienza». E' una metafora suggestiva, quella proposta da Sergio Spinelli, Esperto di Strategie per il Lavoro e Trasformazione organizzativa, all'interno di questa intervista rilasciata in occasione della realizzazione della nuova edizione del report annuale dal titolo "Keep Time and Manage Leadership", prodotto da Business International, la knowledge unit di Fiera Milano, pensato per indagare alcuni degli aspetti più importanti da considereare per la leadership del mondo dell'impresa contemporanea e presentato lo scorso 19 giugno 2025 in apertura del Business Leaders Summit, tenutosi presso l'Allianz MiCo di Milano. Uno spunto che guarda a come, in un'era di AI e "policrisi", il valore di questo elemento si misuri nella sua qualità intenzionale e nella capacità di generare impatto, più che nella quantità di ore. «Il tempo deve essere interpretato come un moltiplicatore di valore competitivo – aggiunge il manager – se investito deliberatamente in visione strategica profonda, capitale umano, apprendimento continuo e disamina critica». Nel primo caso, infatti, secondo l’esperto, «l’importante è dedicare "tempo di qualità" alla riflessione (il "deep work") per connettere punti, decifrare segnali deboli e anticipare scenari futuri, liberati dai compiti ripetitivi dall'AI». Nel secondo caso, invece, quello relativo al capitale umano, secondo Spinelli, diventa importante: «Investire tempo nell'ascolto, nel mentoring, nello sviluppo delle capacità e possibilità delle persone e nella costruzione di una cultura basata sulla fiducia e sulla “psicologia della sicurezza”, trasformando l'engagement in un moltiplicatore di innovazione». Nella terza interpretazione dell’approccio al tempo, infine, il manager consiglia di «impiegare tempo per "disimparare" il vecchio, acquisire nuove prospettive e mettere costantemente in discussione gli attuali modelli di funzionamento e apprendimento in una prospettiva di ulteriore crescita». In definitiva, dal punto di vista di Spinelli: «Il leader che sa allocare il tempo con intelligenza – proteggendo blocchi per il pensiero strategico e coltivando la "pazienza strategica" – trasforma la frenesia e la complessità in opportunità, guidando l'organizzazione con discernimento e lungimiranza». In questo senso, però, risulta chiaro che nell'attuale era di trasformazione radicale che stiamo vivendo, i leader debbano prioritizzare non solo l'efficienza, ma una capacità di adattamento e rigenerazione costante. «Uno scenario – conferma l’esperto – nel quale le cinque priorità fondamentali per una strategia efficace ed efficiente nella gestione del tempo diventano: lo strategic foresight, inteso come agilità strategica e profondità di visione; lo human capital, visto come motore d’innovazione e resilienza; la data fluency, unita all’etica nell’utilizzo dell’intelligenza artificiale; l’ESG purpose-driven, pensato come una leadership orientata allo scopo e alla sostenibilità e la “networked intelligence”, dedicata alla creazione di un ecosistema e di un sistema integrato di collaborazione con l’esterno». Se, però, il primo elemento vede nell’abbandono dei piani rigidi un punto di vantaggio, capace di aiutare ad abbracciare lo "scenario planning" e una "visione aumentata" che permetta di anticipare futuri multipli e pivotare rapidamente, discernendo i segnali deboli della policrisi, nel secondo caso, per il manager, il fattore rilevante risulta essere proprio la capacità di trattenere e investire massicciamente nell’upskilling e reskilling delle proprie risorse, promuovendo una cultura della “psicologia della sicurezza” nella quale i talenti possano fiorire, sperimentare e imparare, alimentando l'innovazione dal basso con una leadership empatica e inclusiva. Il discorso, invece, cambia radicalmente nel momento in cui l’uomo si rapporta con la macchina e si mette alla ricerca di un equilibrio imprescindibile da trovare per poter guardare avanti. «Comprendere il valore intrinseco dei dati e come l'AI possa non solo automatizzare, ma generare insight predittivi – spiega, infatti, Spinelli – significa saper sviluppare una cultura data-driven e un approccio etico all'AI fondamentali da acquisire, al fine di usare davvero questi strumenti per potenziare le capacità umane». Abilità da valorizzare che, secondo l’esperto, devono, prima di tutto, concentrare la propria attenzione sull’essere in grado di articolare un "perché" che trascenda il profitto, integrando i principi ESG come parte centrale della strategia. «Questo – commenta il manager – genera non solo valore economico, ma anche attrattività per i talenti, fiducia dei clienti e resilienza a lungo termine, riuscendo a prioritizzare la costruzione di una rete dinamica di partnership (start-up, università, persino concorrenti) per co-creare valore, condividere rischi e accelerare l'innovazione, attingendo a nuove competenze e prospettive». Proiezioni di noi stessi che, secondo Spinelli, vedono nel "bilanciamento" la sfida cruciale del nostro tempo, non solo nel senso di una ripartizione oraria, ma proprio nell’interpretazione di un "ritmo sostenibile" per benessere e risultati. «In questo senso – aggiunge l’esperto –, la tecnologia gioca un ruolo ambivalente. Da una parte, l’opportunità di liberazione e arricchimento, dove l'AI può automatizzare compiti ripetitivi, liberando "banda cognitiva" per attività strategiche e creative ("deep work"), attraverso strumenti di flessibilità e analytics in grado di supportare maggiore autonomia e identificare inefficienze, o attraverso app per il benessere che contribuiscono alla salute mentale. Dall’altra, invece, i rischi di saturazione e distrazione, dove l'iperconnessione e la cultura dell'"always-on" erodono i confini vita-lavoro, causando burnout e frammentazione dell'attenzione, mentre l'eccessivo affidamento può consumare competenze umane, come il pensiero critico, e una misurazione solo quantitativa della produttività distorce il valore qualitativo del lavoro». Una fotografia netta che mostra come, oggi, in fondo, il giusto ritmo, per un leader, sia quello in grado di sostenere alte performance aziendali senza compromettere il benessere, valorizzando sia l'efficienza tecnologica che la profondità e la creatività umana. «In un futuro dominato dall'AI – commenta Spinelli –, la vera forza del leader risiederà nella riscoperta di capacità unicamente umane. Sotto questo punto di vista, in modo particolare, per le nuove generazioni sarà importante, in primis,
padroneggiare l’arte del “tempo strategico" e coltivare la disciplina della “riflessione profonda"». Se, infatti, è vero che l'AI eccelle nelle risposte basate sui dati esistenti, la capacità di formulare le domande giuste – quelle che anticipano trend, rivelano rischi latenti o svelano opportunità inesplorate – nasce dalla mente umana non frammentata che, trattando il "tempo per pensare" come un asset sacro e delegando all'AI il rumore di fondo, libera così la propria "banda cognitiva" per l'analisi complessa, la concettualizzazione e la visione a lungo termine, programmando deliberatamente momenti di "deep work" e promuovendo una cultura che valorizzi la qualità del pensiero. «In secondo luogo, poi – prosegue Spinelli –, i nuovi talenti dovranno saper sviluppare un “pensiero critico radicale" e l'abilità di interrogarsi e interrogare profondamente, non accontentandosi della prima risposta dell'AI o del team, ma incoraggiando una cultura della "sfida costruttiva" e della diversità di pensiero». Al terzo posto, in questa classifica di consigli per la gestione del tempo, infine, il manager propone la competenza di saper costruire una leadership “umana aumentata", basata sulla fiducia e l'empatia come moltiplicatore. «In un mondo sempre più tecnologico – chiosa Spinelli –, il valore distintivo dell'uomo è nelle sue competenze umane: empatia, intelligenza emotiva, creatività, etica e capacità relazionale. I leader devono essere “architetti di fiducia” e “catalizzatori del potenziale umano”, investendo tempo ed energia nella creazione di un ambiente dove la vulnerabilità è vista come una forza e l'apprendimento dagli errori è celebrato (la cosiddetta “psicologia della sicurezza”). Delegare con fiducia, potenziare l'autonomia dei collaboratori e supportarli attivamente nel loro benessere sono azioni che costruiscono team resilienti, capaci di anticipare e guidare il cambiamento, anziché subirlo». Pilastri interconnessi, questi, che permetteranno ai leader di domani di migliorare le proprie capacità decisionali, anticipare e prosperare nel complesso scenario futuro, mantenendo sempre l'uomo al centro.
In un contesto economico globale segnato da instabilità e incertezza, i leader aziendali stanno abbracciando il lavoro ibrido come una soluzione strategica per navigare le sfide e garantire la crescita a lungo termine. Un nuovo studio di International Workplace Group (IWG), leader mondiale negli spazi di lavoro flessibili con brand come Regus, Copernico, Spaces, evidenzia come questa tendenza stia trasformando il modo in cui le aziende operano e gestiscono le proprie risorse.
Secondo la ricerca, l'87% dei CEO e CFO coinvolti nell’indagine si dichiara preoccupato per l'impatto dell'instabilità macroeconomica sulle proprie attività e l'86% sta implementando misure proattive per proteggere le proprie aziende. Tra queste, il lavoro ibrido emerge come una delle strategie più efficaci, con l'83% dei dirigenti che lo considera cruciale per la riduzione dei costi. In un contesto in cui il 67% delle aziende sta ridimensionando o pianificando di ridurre i costi operativi a causa dell'aumento delle tariffe, il lavoro ibrido offre una soluzione concreta.
I VANTAGGI DEL LAVORO IBRIDO: UNA TRASFORMAZIONE COMPLETA DEL BUSINESS
Il lavoro ibrido non consente solo di risparmiare ma ha anche un impatto significativo sul business. Il 77% dei CEO e CFO concorda sul fatto che il lavoro ibrido ha contribuito a ridurre significativamente le spese generali, liberando risorse preziose per investimenti strategici e creando un cuscinetto essenziale contro le imprevedibili fluttuazioni del mercato. Inoltre, il modello ibrido si dimostra un fattore chiave per la resilienza aziendale, permettendo alle aziende di adattarsi rapidamente ai cambiamenti del mercato e garantendo la continuità operativa anche in tempi incerti. Non a caso, il 79% delle aziende sta attivamente esplorando ulteriori spazi di lavoro flessibili. L'adozione del lavoro ibrido ha portato anche a un aumento della produttività dei dipendenti, con l'83% dei dirigenti che ha riscontrato un miglioramento tangibile grazie alla flessibilità offerta da questo modello. Parallelamente, l'88% dei leader aziendali riconosce che il lavoro ibrido migliora la soddisfazione dei dipendenti, rendendolo un fattore cruciale per attrarre e fidelizzare i migliori talenti. Infine, il 74% dei CEO e CFO afferma che il lavoro ibrido ha aperto nuove opportunità di espansione geografica, ampliando il potenziale di crescita delle loro aziende. In un contesto in cui la produttività (37%), il benessere dei dipendenti (23%) e il rafforzamento della fidelizzazione dei talenti a lungo termine (17%) sono considerati elementi essenziali per il successo, il lavoro ibrido si rivela uno strumento fondamentale per raggiungere questi obiettivi.
"In un'epoca di volatilità economica, i CEO stanno valutando attentamente come affrontare l'incertezza, guidando al contempo l'efficienza e la crescita delle loro aziende," afferma Mark Dixon, CEO e fondatore di International Workplace Group. "Riconoscono che la flessibilità non è solo cruciale per salvaguardare le operazioni, ma anche per migliorare la produttività dei team. Consentendo ai dipendenti di lavorare più vicino a casa, in spazi di ufficio locali, le aziende che adottano il modello ibrido possono ridurre significativamente i costi e migliorare l'equilibrio tra lavoro e vita privata."
Il lavoro ibrido si conferma così come una strategia vincente per le aziende che desiderano affrontare l'incertezza economica, ridurre i costi, aumentare la produttività, attrarre i migliori talenti e, soprattutto, prendersi cura del benessere dei propri dipendenti.
Si sa, c’è ormai la credenza diffusa che la Gen Z non abbia così tanta voglia di lavorare. Troppo tempo sui social, troppe pretese e poca concentrazione. Ma è veramente così? Trattandosi di una generazione differente da quelle precedenti, un po’ come tutte, del resto, non avrebbe semplicemente bisogno di essere coinvolta e trattata in maniera diversa rispetto ad esempio ai Millennials?
Un tema, questo, che attanaglia tanto i Chief Marketing Officer, che guardano all'esterno per capire come coinvolgere un mercato composto da nuove generazioni di utenti e clienti sempre più esigenti, quanto ai Direttori HR, che orientano la propria attenzione verso l'interno per comprendere come valorizzare al massimo i propri talenti più giovani, e che abbiamo voluto approfondire meglio in questo articolo, attraverso l'analisi e il commento di un recente white paper a cura di MobieTrain. Un documento, realizzato dalla piattaforma di microlearning dedicata alla formazione del personale, che vuole suggerire 8 consigli pratici per coinvolgere al meglio un lavoratore della Gen Z sul posto di lavoro e che vi proponiamo di seguito anche in vista della prossima edizione del HR Directors Summit, l'evento dedicato al mondo delle risorse umane, previsto il prossimo 19 e 20 giugno 2025, presso l'Allianz MiCo di Milano, all'interno del Business Leaders Summit - la grande manifestazione dedicata ai migliori C-level del momento, organizzata da Business International, la knowledge unit di Fiera Milano.
GLI 8 CONSIGLI DI MOBIETRAIN
Secondo gli esperti di microlearning, infatti, le parole d’ordine per riuscire a ingaggiare le nuove generazioni si professionisti sono: coinvolgimento, gamification e feedback costanti. Andando nello specifico, inoltre, il primo suggerimento proposto è quello di utilizzare una comunicazione trasparente e dare feedback costantemente: "La Gen Z - sottolineano gli analisti dell'azienda -, abituata ad un flusso di comunicazione e di informazioni continuo e rapido, apprezza la trasparenza e il ricevere feedback costantemente". A testimonianza, quindi, di come fornire loro un riscontro puntuale e costruttivo li aiuti a sentirsi valorizzati e soprattutto allineati con la mission e gli obiettivi dell’organizzazione per cui lavorano. In secondo luogo, poi, le indicazioni proposte si orientano anche sull'offrire un posto di lavoro flessibile e ibrido. Secondo l'azienda, infatti, "i giovani nati tra il 1997 e il 2012 sono cresciuti vedendo intorno a loro la possibilità di lavorare, ma anche studiare, da remoto. Offrire quindi spazi di lavoro flessibili e ibridi può aumentare il loro rendimento e la loro soddisfazione. Specialmente per questa generazione, è importante che il posto di lavoro rispetti l’equilibrio tra vita privata e lavoro, magari con la possibilità di lavorare in smart working per qualche giorno alla settimana". In terza istanza, quindi, anche il fornire strumenti digitali all’avanguardia per i professionisti di nuova generazione ha il peso. In questo senso, "essendo composta nativi digitali - spiegano gli esperti di microlearning -, la Gen Z ha molta dimestichezza con la tecnologia. Fornirgli strumenti digitali all’avanguardia e moderni li renderà sicuramente più produttivi, oltre a velocizzare le attività di lavoro". Un altro aspetto fondamentale risulta essere anche la promozione della diversità e dell’inclusione: "i giovani che fanno parte di questa generazione sono particolarmente vicini a tematiche come l’inclusione e la diversità - sottolineano gli analisti dell'azienda -. Offrire loro un ambiente di lavoro aperto in cui possano sentirsi accettati e valorizzati è fondamentale". In questo contesto, peraltro, è diventato essenziale essere in grado di proporre alla propria forza lavoro anche opportunità di apprendimento e di crescita. "A dispetto di quanto si possa pensare - avverte l'azienda -, non è affatto vero che alla Gen Z non interessa lavorare, anzi. Questa generazione è in cerca di apprendimento continuo e di possibilità di crescita. Potrebbe essere utile offrire loro programmi di formazione, meglio se continua, e possibilità di avanzamento professionale. Ad esempio, MobieTrain offre una applicazione per formarsi in qualsiasi momento e ovunque ci si trovi. Grazie alla web app, ogni dipendente può dedicare qualche minuto al giorno, o quando può, a conoscere meglio la propria azienda, per essere più preparato e allineato alla vision aziendale quando parla con i clienti". Ovviamente, però, al netto di queste opportunità, sembra che le nuove generazioni di professionisti siano le prime a chiedere di rendere il business e la formazione per il business meno statica e tradizionale, portando le aziende a cercare innovazione anche sotto quel punto di vista. Proporre attività di gamification per trasformare in gioco - ad esempio con punti, classifiche interne ed eventuali penitenze - le attività della settimana, così, secondo gli esperti "può aiutare i giovani ad essere più coinvolti e motivati sul lavoro. Ciò stimola il desiderio di competere amichevolmente e li motiva a migliorare costantemente, senza sentirsi eccessivamente sotto pressione". A questo si aggiunge, inoltre, un altro aspetto di valorizzazione, sopratutto in un momento di grande rivoluzione digitale come quello che stiamo vivendo, ovvero, la possibilità di dar vita a progetti di “Reverse Mentorship”. Secondo gli analisti dell'azienda, infatti, "invertire i ruoli tradizionali in azienda può essere una grande risorsa: da una parte i giovani della Gen Z possono aiutare i colleghi più senior con le loro competenze digitali, dall'altra i colleghi possono aiutare i giovani nell’imparare meglio il lavoro, con un occhio di riguardo nei confronti della parte burocratica, amministrativa e perché no, anche più relazionale". E se questo non bastasse, c'è sempre la possibilità di non far annoiare i propri dipendenti su mansioni nelle quali magari non si ritrovano personalmente, dando loro invece di esprimere al massimo le proprie potenzialità. Sotto questo profilo, quindi, secondo gli esperti: "permettere alla Gen Z di cambiare ruolo con un collega, per un breve periodo, consente di assicurarsi una visione d’insieme dell’azienda. Questo approccio consente ai giovani di vedere da vicino anche le attività degli altri, migliorando il lavoro di squadra e potenziando l’approccio empatico nei confronti dell’azienda".
"Se c’è una cosa che non cambia mai, è il pensiero che la generazione successiva sia “la peggiore di sempre.” Ricordate? I giovani di oggi “non vogliono lavorare” e “non sanno cos’è il sacrificio” – un tormentone che va avanti da sempre. Eppure, tra una battuta e l’altra, è essenziale capire che la Gen Z ha semplicemente prospettive e priorità diverse - commenta Laura Fornaroli, Marketing Manager di Mobietrain - Questa generazione non è “peggio” di quelle precedenti, è semplicemente cresciuta in un contesto diverso, dove la stabilità lavorativa ha meno valore e il benessere personale conta di più. Dall’ascolto attivo al coinvolgimento genuino, fino a capire cosa conta davvero per loro sul posto di lavoro. Sono semplici consigli che però possono aiutare un’azienda e il management nell’interagire lavorativamente al meglio con questa fascia della popolazione, sempre più presente nel contesto lavorativo odierno”.