Più di una PMI italiana su due (54%) dichiara di investire con intensità nelle tecnologie digitali, sia in modo mirato su singole aree sia in modo trasversale su tutta l’organizzazione. Eppure, la piena maturità digitale è ancora lontana. Se da un lato si registra una crescente presenza di figure interne a presidio della trasformazione digitale e primi segnali di revisione dei processi in funzione delle nuove soluzioni, dall’altro persistono alcune fragilità strutturali. Un’impresa su tre, ad esempio, non dispone ancora di un responsabile IT – interno o esterno – e l’adozione tecnologica si concentra spesso su strumenti di base, non integrati tra loro e utilizzati prevalentemente in ambito amministrativo. Le tecnologie sono presenti, ma faticano a diventare vere leve di cambiamento trasversale e l’integrazione delle informazioni e la diffusione di competenze digitali nei processi core restano ancora limitate. Un contesto variegato e complesso, quello dell'ossatura economica del nostro Paese, nel quale la connettività inadeguata, la scarsa disponibilità di competenze e una cultura aziendale non sempre pronta all’innovazione restano le principali e più visibili barriere al cambiamento su cui manager e imprese devono porre ancora maggiore attenzione e concentrazione per guardare davvero a un futuro di crescita, ripresa e resilienza..
Questi sono solo alcuni dei risultati della ricerca dell’Osservatorio Innovazione Digitale nelle PMI del Politecnico di Milano che abbiamo voluto comprendere meglio in questo articolo, in vista della prossima edizione del Business Leaders Summit - la grande manifestazione dedicata ai migliori C-level dell'impresa contemporanea, organizzato da Business International, la knowledge unit di Fiera Milano, e prevista , il 26 e 27 novembre 2025, a Roma, presso lo SPAZIO FIELD di Palazzo Brancaccio.
“La digitalizzazione delle PMI italiane procede, ma troppo lentamente rispetto alla velocità con cui evolve il contesto tecnologico ed economico. Oggi, più che la carenza di risorse finanziarie, è la difficoltà nel leggere il cambiamento e nel trasformarlo in scelte strategiche a rappresentare il vero ostacolo. Serve un cambio di passo culturale, che coinvolga tutta l’impresa, dal management agli operatori, e una nuova capacità di visione di lungo periodo - spiega Claudio Rorato, Direttore dell’Osservatorio Innovazione Digitale nelle PMI -. È fondamentale che l’ecosistema supporti le PMI per creare nuova cultura gestionale e che le politiche pubbliche siano progettate in modo verticale, partendo dalle specificità dei territori e dei settori, così da essere realmente efficaci e riconoscibili dalle imprese. Solo con questo approccio sarà possibile rafforzare la consapevolezza, facilitare l’adozione delle tecnologie e accompagnare le PMI verso una vera maturità digitale”.
LE BARRIERE ALLA TRASFORMAZIONE DIGITALE: COMPETENZE, RETI, RISORSE
Se da un lato, come detto, il 54% delle PMI taliane dichiara un elevato livello di investimento in tecnologie digitali, il restante 46% adotta invece un approccio più cauto, perché il ruolo del digitale viene considerato marginale nel proprio settore (20%), per una scarsa comprensione dei benefici (10%), per i costi percepiti come elevati (9%) o per totale disinteresse (7%). Le piccole e medie imprese si trovano, infatti, ad affrontare numerosi ostacoli. L’83% dichiara difficoltà nell’adozione e nell’utilizzo di strumenti digitali, principalmente per carenze di tipo culturale (44%), per la scarsità di competenze specialistiche (59%) e per i costi legati all’adozione e alla manutenzione di hardware e software (40%). Inoltre, il 47% delle imprese evidenzia criticità nell’accesso alla connettività digitale. In questo senso, peraltro, elaborazioni su dati AGCOM mostrano che il 41% delle PMI non è servito da una connessione FTTH, e nelle province meno coperte la percentuale di PMI con accesso alla fibra ottica scende sotto il 30%. Una fotografia, questa, dalla quale risulta chiaro, quindi, come il tema della connettività resti una sfida aperta, in particolare nelle aree a minore densità imprenditoriale, dove l’estensione delle infrastrutture procede con maggiore gradualità. In questi contesti, l’accesso limitato a connessioni ad alte prestazioni può rallentare l’adozione di soluzioni digitali più avanzate, contribuendo a differenze di velocità nei percorsi di trasformazione e incidendo sul pieno potenziale competitivo delle imprese locali. Anche sotto il profilo finanziario, la trasformazione digitale resta sbilanciata: quasi la metà delle PMI (47%) ha sostenuto le spese esclusivamente con risorse proprie. Nell’ultimo anno, meno di un terzo ha attinto a fondi pubblici per la digitalizzazione. A limitarne il ricorso sono soprattutto la complessità burocratica e la difficoltà nel reperire informazioni, nonché la scarsa propensione a utilizzare strumenti innovativi (equity, crowdfunding, minibond).
LA FORMAZIONE E' UN INVESTIMENTO, NON UN COSTO
Le attività formative faticano a decollare: il 38% delle PMI non ritiene prioritario elevare le competenze digitali interne. Inoltre, la formazione resta concentrata soprattutto sui livelli operativi, mentre è spesso assente il coinvolgimento attivo di imprenditori e management, che dovrebbero invece essere i primi promotori del cambiamento. “Questa mancanza di ingaggio ai vertici indebolisce la capacità delle PMI di adottare una visione strategica dell’innovazione digitale e di guidarne l’implementazione in modo efficace. Troppo spesso - prosegue Rorato - imprenditori e manager non partecipano direttamente ai percorsi di aggiornamento, rendendo difficile l’adozione diffusa di nuove tecnologie. Inoltre, la formazione, soprattutto quella finanziata, deve agevolare le realtà più piccole individuando nuove modalità di fruizione, che remunerino il costo del lavoro e consentano l’impiego di piattaforme con programmi fruibili al di fuori dell’orario di lavoro".
TECNOLOGIE AVANZATE: IL POTENZIALE ANCORA INESPRESSO
L’adozione tecnologica nelle PMI italiane si concentra ancora su strumenti semplici, spesso isolati tra loro e con funzionalità di base. I software gestionali – in particolare per amministrazione e contabilità – restano i più diffusi, seguiti da soluzioni di base per la protezione delle reti. Si registra una crescente diffusione – specialmente tra le medie imprese – di servizi in Cloud e di piattaforme di eCommerce B2b, mentre l’uso dei dati a supporto delle decisioni aziendali, pur presente, è ancora marginale e scarsamente strutturato. I benefici percepiti si concentrano prevalentemente nelle funzioni amministrative, finanziarie e di controllo di gestione. Tuttavia, solo una minoranza di imprese attribuisce al digitale un valore strategico, continuando a considerarlo un supporto operativo e non uno strumento capace di orientare le decisioni di business. Soluzioni come Data Analytics, Intelligenza Artificiale, Blockchain e Metaverso offrono nuove opportunità per migliorare prodotti, processi e relazioni, ma restano ancora poco adottate. Le imprese temono la difficoltà di integrazione nei processi esistenti e la mancanza di competenze interne più che i rischi tecnologici in sé. Così, secondo i ricercatori, serve un’azione corale per colmare il gap: il 61% delle PMI ha avviato progettualità di digitalizzazione con supporto esterno, ma soprattutto con soggetti con cui tradizionalmente hanno più familiarità (come fornitori tecnologici, professionisti e associazioni di categoria), meno con enti ad alto contenuto tecnologico (come startup, università e centri di ricerca).
IL RUOLO DELL'ECOSISTEMA PUBBLICO-PRIVATO
Per affrontare le sfide del futuro, le PMI devono rafforzare le sinergie con startup, università, poli tecnologici e attori della stessa filiera. Le collaborazioni pubblico-privato devono diventare leva fondamentale per attivare percorsi collettivi di innovazione. Le politiche pubbliche, dal PNRR ai bandi regionali, devono essere pensate, ma come strumenti di trasformazione culturale, capaci di attivare processi di collaborazione stabili. “Affinché le PMI possano affrontare con successo la transizione digitale, è fondamentale attivare un ecosistema di collaborazione stabile e continuativo. Le sinergie spontanee sono importanti, ma non bastano: il ruolo dei policy maker è decisivo nel favorire partenariati pubblico-privati capaci di valorizzare anche le imprese meno strutturate, quelle che più faticano a dotarsi di visione e risorse”, conclude Claudio Rorato.
«Nel mio ruolo, osservo ogni giorno quanto il tempo sia diventato una risorsa preziosa, ma anche fragile. La vera difficoltà, oggi, non è “fare di più”. È scegliere dove mettere attenzione, e farlo insieme al proprio team, in modo lucido e sostenibile». Alessandra Iacovelli, Direttrice IT e Trasformazione Digitale di Carrefour Italia, lo dice senza esitazioni e con grande consapevolezza. Secondo la manager, infatti, In un mondo sempre più velocizzato dall’avvento dell’intelligenza artificiale e reso complesso dalle policrisi in atto, nel 2025, parlare di tempo per un leader d’impresa significa affrontare un concetto che ha radicalmente cambiato natura. «Non è più una risorsa da gestire – spiega l’esperta –. È diventata una coordinata strategica, che determina la capacità di un’organizzazione di sopravvivere, adattarsi, competere». Per l’esperta la questione è lampante. «Le crisi ambientali, geo-politiche ed economiche che stiamo vivendo, ormai, non si succedono più. Si sovrappongono. E generano una complessità che non si può affrontare con vecchi modelli di leadership lineare. In questo scenario, il tempo va ripensato. Basta osservare il ruolo di un CIO oggi. Non può più lavorare su cicli tecnologici lenti o piani quinquennali rigidi. Deve decidere quando aggiornare, quando rallentare, quando innovare. Deve costruire architetture digitali agili, prevedere discontinuità, garantire continuità di servizio anche in contesti instabili. Ma non basta fare presto: bisogna agire al momento giusto». E questo vale per tutti i leader. «Non dobbiamo solo andare più veloci – prosegue la manager –. Dobbiamo imparare ad ascoltare il contesto e adattare il nostro ritmo di conseguenza. La vera resilienza nasce dall’armonia, non dalla corsa». L’evoluzione del concetto di tempo, d’altronde, è testimoniata anche da come questa si è evoluta in ottica di valutazione del lavoro di un professionista. «Negli anni scorsi – commenta Iacovelli – abbiamo assistito al passaggio dalla valutazione sul tempo a quella sugli obiettivi, che rappresenta la risposta alla necessità di un mondo del lavoro più agile, flessibile, produttivo e orientato ai risultati. Questo approccio favorisce l’innovazione, la responsabilizzazione e un migliore allineamento strategico, portando a vantaggi sia per i dipendenti che per le aziende». Secondo la manager c’è, poi, un ulteriore aspetto da considerare in questo contesto. Un elemento spesso sottovalutato, ma decisivo: il tempo delle alleanze. «In un mondo così interconnesso – approfondisce l’esperta –, il vantaggio competitivo è sempre di più quello collaborativo. Chi ha saputo costruire per tempo relazioni solide con partner, istituzioni, ecosistemi, sarà più pronto nel momento del bisogno. Le alleanze si costruiscono prima della crisi, non durante. E questo richiede una leadership che sappia investire tempo nella relazione, non solo nella performance». Il tempo, quindi, non è più solo una questione di produttività. «È una scelta strategica – conferma la manager –. Possiamo usarlo per rispondere meglio, per anticipare, per costruire valore sostenibile. E se impariamo a usarlo così, sarà proprio il tempo – e non la velocità – a fare la differenza». Sotto questo profilo, però, risulta evidente anche come, oggi, costruire una strategia efficace ed efficiente sia un atto di responsabilità verso il futuro dell’azienda, dei colleghi, dei clienti. «Per Carrefour Italia – annuisce Iacovelli –, la sfida è particolarmente intensa in questo senso. Operiamo nel mondo della distribuzione, un settore che ogni giorno tocca la vita delle persone, e che oggi si trova al centro di una rivoluzione silenziosa. I comportamenti cambiano rapidamente, i bisogni si moltiplicano, la tecnologia evolve in tempo reale. In questo scenario, non basta rispondere. Serve anticipare, e farlo con lucidità. Ci sono, a mio avviso, tre asset fondamentali che devono guidare oggi ogni strategia, se vogliamo restare rilevanti nel tempo: l’adattamento continuo, la coerenza con i valori e l’identità dell’azienda e la centralità delle persone. In Carrefour Italia, lo vediamo quotidianamente: la trasformazione digitale non è solo tecnica. È culturale. Richiede ascolto, accompagnamento, coinvolgimento. Solo così si crea un’organizzazione che si trasforma senza perdere coerenza. La vera domanda, oggi, non è: “Siamo abbastanza innovativi?” La domanda è: “Abbiamo costruito un sistema capace di rigenerarsi nel tempo, senza perdere il nostro DNA?”. Perché — e lo abbiamo imparato — non esistono aziende che resistono al cambiamento. Esistono solo aziende che imparano a danzare con lui». Un’abilità estremamente complessa da realizzare, eppure così importante da acquisire, per guardare avanti. «Il vero punto focale qui – ammonisce la manager – non è fare di più in meno tempo, ma dare senso al tempo che dedichiamo alle attività quotidiane. In Carrefour Italia, questo significa una cosa molto concreta: semplificare la vita dei nostri colleghi nei punti vendita. Rendere più fluide, intuitive ed efficienti le attività operative è oggi una delle nostre priorità strategiche. Per farlo, stiamo concentrando energie e investimenti su soluzioni di automazione e RPA che riducano il peso delle attività manuali e ripetitive, restituendo tempo di qualità alle persone nei negozi e nei team di sede. È un lavoro che parte dall’ascolto e si traduce in soluzioni tecniche tangibili, con impatti visibili giorno dopo giorno». In tutto questo, naturalmente, la tecnologia non è fine a sé stessa, ma diventa uno strumento per liberare tempo, ridurre complessità e migliorare la qualità del lavoro. «Il vero rischio oggi – aggiunge Iacovelli – è implementare strumenti che appesantiscono, invece di semplificare. Il vero successo, per noi, è quando una soluzione diventa quasi invisibile, perché è naturale, utile, e riconosciuta come alleata da chi la usa. Il nostro compito, infatti, non è solo innovare. È saper scegliere dove e perché farlo, mettendo le persone al centro della trasformazione digitale. È così che costruiamo il ritmo giusto per il cambiamento». Certo, viviamo in un mondo in cui l’intelligenza artificiale è diventata una leva potente, ma anche una sfida profonda per il ruolo dell’essere umano, non tanto sul piano operativo — dove l’AI può davvero moltiplicare la nostra capacità di analisi e previsione —, quanto sul piano del pensiero critico, della consapevolezza e della responsabilità nel decidere. In questo contesto, però, le nuove generazioni di leader hanno davanti a sé un compito non semplice: coltivare la capacità di fare buone domande, gestendo il tempo come un investimento e non come un vincolo e puntando alla flessibilità, senza rinunciare alla visione. «In un mondo che ti riempie di risposte, spesso fornite da algoritmi, cruscotti e report automatici — conclude la manager –, la differenza non la farà chi saprà leggere i dati, ma chi saprà interrogare il contesto. In questo senso, bloccare uno spazio per pensare è tanto importante quanto rispondere subito a una richiesta urgente. Dove il tempo viene progettato — per ascoltare, per migliorare, per testare — le persone rendono meglio e si sentono più ingaggiate. Ed è proprio qui che la visione resta la bussola. In un ambiente in continua e rapida evoluzione, sapersi adattare è fondamentale, ma sapere in che direzione si vuole andare lo è ancora di più. La resilienza non è resistenza, è capacità di riorientarsi senza disintegrarsi, ma avendo il coraggio di scegliere quando fermarsi, cosa ascoltare e come decidere».
«C’erano una volta le generazioni, quella arbitraria suddivisione della vita umana in quattro grandi fasce di età – infanzia, giovinezza, età adulta e vecchiaia – alle quali corrispondevano altrettante attività – gioco, apprendimento, lavoro e riposo». Inizia quasi come una favola di Esopo la conversazione realizzata con Marta Guidarelli, Global HR Operations Director di Campari Group, in occasione della nuova edizione del report annuale dal titolo "Keep Time and Manage Leadership", prodotto da Business International, la knowledge unit di Fiera Milano, pensato per indagare alcuni degli aspetti più importanti da considereare per la leadership del mondo dell'impresa contemporanea e presentato lo scorso 19 giugno 2025 in apertura del Business Leaders Summit, tenutosi presso l'Allianz MiCo di Milano. Uno spunto che ci riporta a quando eravamo più piccoli per mostrarci una importante lezione sul cambiamento epocale che stiamo vivendo. «Ci siamo abituati a tal punto a vite cadenzate in questo modo – prosegue la manager –, che siamo arrivati a credere che il tempo sia una cassettiera, dove le cose vanno messe in un ordine esatto. E a confondere un artificio, lo scandire il tempo, con un fatto naturale. Abbiamo l’abitudine di definire il tempo e a riferirci a esso come a un concetto lineare, invece, il modello sequenziale della vita, oggi, deve essere scardinato per consentire una diversa organizzazione del lavoro, del mercato e in generale della società». Anche perché, mentre almeno otto generazioni abitano contemporaneamente il pianeta e 5 lavorano insieme, l’aumento delle aspettative di vita e il miglioramento della forma fisica e mentale rendono possibili vite più lunghe e flessibili, nel corso delle quali le nostre scelte saranno meno definitive e irreversibili e una più variegata gamma di opportunità e ripensamenti di carriera sarà a nostra disposizione. «Nelle aziende, come nella vita – sottolinea l’esperta –, il tempo è un fiume di onde che si intrecciano e le generazioni non sono “blocchi” separati. Ora, proviamo a entrare nella nostra azienda, proviamo a capire come si possa evitare la creazione di confini netti, divisivi e potenzialmente discriminatori. La nostra azienda è come un ecosistema, come una foresta. Nessuna foresta può sopravvivere con un solo tipo di pianta. Serve un equilibrio, tra alberi secolari, giovani germogli e tutto ciò che li connette. La convivenza tra esperienza e innovazione è ciò che rende una foresta - e un’azienda - viva e resiliente». Basti pensare che le piante, per esempio, comunicano tra loro, sottoterra, come spiega Guidarelli, grazie al “wood wide web”: una rete di radici e funghi che trasmettono risorse e informazioni. «Un albero anziano – aggiunge la manager – può inviare nutrienti a un giovane arbusto lontano. Se una pianta è in difficoltà, il resto della foresta la sostiene. È così che dovrebbero funzionare anche le aziende: non con compartimenti stagni, ma con scambi continui di conoscenza. Nella nostra foresta aziendale convivono, da una parte, Boomers e Gen X, che sono gli alberi secolari, con radici profonde che danno stabilità e saggezza, e, dall’altra, Millennials e Gen Z, che sono le giovani piante e i rampicanti, flessibili e in rapida crescita. E poi ci sono anche coloro che, a prescindere dalla loro età anagrafica, aiutano tutti a fondersi. Chiamiamoli Perennials, ovvero, persone sempre in fiore e con uno stile di apprendimento agile, sempre curiose di imparare. Non si definiscono per età, ma per la loro curiosità e capacità di recepire il cambiamento». Un’attitudine alla curiosità e alla continua incentivazione alla ricerca di modi innovativi per tenere attivo lo scambio in azienda, che contribuisce alla continua produzione di valore, senza fare sentire nessuno troppo nuovo o troppo obsoleto. «D’altronde – spiega Guidarelli –, non esiste leadership senza followership. Spesso ce ne dimentichiamo, presi dalla centralità che i temi aspirazionali hanno sempre rivestito nel dibattito aziendale e nella letteratura, per via del loro indiscutibile fascino, ma non esiste un capitano, senza un equipaggio da coordinare. E credo fermamente che per rimanere al passo con i mercati e le loro esigenze sia fondamentale capire davvero, profondamente e con letture multisfaccettate, i comportamenti dei propri follower». Un’abilità che, nella logica dell’esperta, consentirebbe di capirne i valori e intercettare i trend e i rischi futuri, considerando come follower un insieme esteso di possibili interfacce individuabili tra dipendenti, clienti, consumatori, azionisti e, in generale, stakeholder. «Se vogliamo veramente aiutare i nostri leader a essere capaci di intercettare le tendenze – analizza la manager –, non dobbiamo correre il rischio di chiuderci nell’autocompiacimento e dobbiamo guardare a ottenere “feedforward” dal mercato, indicazioni su desideri e aspettative future». Un modus operandi che porta, quindi, Guidarelli a richiamare la matrice di Kelley, un modello di letteratura dei primi anni ’90 che vuole segmentare le diverse tipologie followership e che vede il follower: più o meno indipendente nel produrre pensiero critico e più o meno attivo/passivo nel proprio comportamento. «Gli stili di followership proposti da questa teoria – spiega l’esperta – sono cinque e si identificano in: Pecore, quelli senza pensiero critico e passivi, crogiolati nella inazione; Star, quelli con alto pensiero critico e alto ingaggio, che non si adeguano al pensiero del leader o al groupthink e che restano con la voglia di comunicare il proprio pensare, con spirito e scopo positivi, ma senza evitare il conflitto; Alienati, quelli che pensano ancora criticamente, ma che non ci dicono nulla, perchè credono vano ogni sforzo di comunicazione e quindi si arroccano nel cinismo; “Yes People” o Conformisti, il cui pensiero è appiattito su quello del leader e agiscono in coerenza con esso; Pragmatici, quelli che si comportano in maniera più o meno attiva, in base al contesto. Esercitarsi a capire i propri stakeholders è davvero il game-changer nella lettura della competitività di mercato. E dopo la comprensione, il decision making sarà una conseguenza naturale, che con varie tecniche può essere a sua volta incentrato su ascolto partecipato, dai Brainstorming alle Dialectical inquiries, dal Design Thinking alle Nominal Group techniques, fino alla Delphi Technique». In questo contesto estremamente variegato e complesso, la tecnologia deve assumere un ruolo di aiuto nelle attività più fagocitanti, di analisi e transazionali. «Ai tempi del fordismo risultava vincente affidare, con minimo presidio umano, a una macchina la produzione di pezzi per unità di tempo e accellerarne il più possibile il numero di giri – commenta Guidarelli –. Oggi che a consumare il nostro tempo sono le manipolazioni e le analisi di dati massive, scritture di contenuti di dettaglio, ecco che l’era della artificial intelligence ci viene in aiuto e chiediamo alle macchine di supportarci, nuovamente, a risolvere problemi più moderni, di un modo di lavorare contemporaneo. E, in questo contesto, per un leader il vero rischio da evitare è quello di lasciarsi abbagliare dalla bellezza e dalla velocità della tecnologia, senza avere fatto prima una riflessione strategica su ciò che deve davvero rimanere appannaggio dell’uomo e cosa invece può essere affidato alla macchina. Ricorrere all’aiuto della AI, infatti, non è il male assoluto, ma, per quanto essa sia affascinante, va approcciata senza subirla». Come a dire che saper discernere tra la richiesta di aiuto tout court e il supporto strategico è un’abilità che va sempre tenuta in grande considerazione per evitare gravi errori di valutazione che inizialmente possono essere presi alla leggera, ma sul lungo periodo possono dare vita a vere e proprie forme culturali del lavoro errate e controproducenti. Sbagli di valutazione che al giorno d’oggi un leader non si può permettere e che possono fare la differenza tra il successo e il fallimento. «In un periodo di grande trasformazione come quello che stiamo vivendo dobbiamo sempre ricordare che negli ambienti tranquilli nulla accade e che i rischi e i nuovi trend nascono proprio dalla discontinuità – spiega Guidarelli –. Quindi, la vittoria siede al tavolo di chi non ha paura del conflitto, esce da contesti in cui non si sente felice e si autorizza a sbagliare. Sotto questo punto di vista, infatti, mettere in discussione le proprie idee e quelle dei propri leader, per evitare di essere delle pecore prive di pensiero critico, dei followers acquiescenti addormentati nel groupthink e farlo riflettendo sull’importanza critica della comunicazione è la via. Detto questo, però, non c’è peggiore errore che indulgere in paludi che non ci consentano di fiorire e, a volte, bisogna avere il coraggio di andare volontari alle presentazioni più complesse, prepararsi, approfondire e non compartimentare, non credere che esista un tempo per studiare e un tempo per fare. Il tempo è fluido, e democratico: è una risorsa data. Le giornate hanno per tutti la stessa durata e la disciplina nella sua gestione sarà uno strumento ulteriore al quale allenarsi, per proteggersi, per bilanciarsi, per godere il più a lungo possibile della propria salute, benessere e successo, qualsiasi significato a esso si voglia dare».
Con l’arrivo dell’estate e delle tanto attese ferie, per molti professionisti si ripropone la sfida di riuscire a disconnettersi realmente dal lavoro. Se la pianificazione di una trasferta lavorativa avviene con precisione e cura, spesso la partenza per le vacanze viene affrontata in modo frettoloso, lasciando irrisolte attività, e-mail e preoccupazioni.
Così, abbiamo cercato di capire come i professionisti italiani, in questa torrida estate possano approcciare questo aspetto nella maniera migliore, grazie all’analisi e al commento di un white paper recentemente pubblicato da GoodHabitz, che attraverso una serie di consigli mirati ha proposto una nuova modalità di interpretazione della pianificazione delle ferie e dei giorni che le precedono. «Momenti su cui – secondo gli esperti della piattaforma internazionale – bisognerebbe porre la stessa attenzione riservata agli impegni professionali, con l’obiettivo di garantire una vera pausa dal lavoro e favorire il benessere personale».
Nasce così il business plan per la disconnessione reale: «Una strategia concreta – spiegano gli analisti di GoodHabitz – pensata per consentire ai professionisti di vivere il periodo di riposo in modo pieno ed efficace, tornando al lavoro con maggiore lucidità, energia e motivazione». In cinque semplici consigli, quindi, il documento offre un metodo strategico per organizzare e strutturare i giorni lontani dalle “sudate carte”, come se fossero una riunione con il cliente più importante: noi stessi.
I 5 CONSIGLI PER FERIE DI SUCCESSO
1. Preparare la “valigia delle priorità”: stilare un elenco dettagliato delle attività in sospeso, suddividendole tra quelle da completare prima della partenza, quelle da delegare in modo chiaro e quelle che possono essere posticipate senza sensi di colpa o senza creare inutili sovraccarichi ai propri collaboratori ed evitando rischi di vuoti pneumatici dannosi nei confronti di partner e clienti.
2. Creare il “passaporto della tranquillità”: predisporre per il team un documento condiviso contenente contatti utili, procedure operative, FAQ, al fine di ridurre al minimo le interazioni durante l’assenza e allo stesso tempo responsabilizzare i collaboratori, valorizzandone anche le soft skill di task management e problem solving.
3. Impostare la “dogana digitale”: disattivare le notifiche, attivare una risposta automatica creativa che indichi chiaramente il periodo di indisponibilità e la data di rientro, comunicando in modo trasparente la propria assenza e offrendo all’interlocutore chiare regole d’ingaggio. Dando da subito un contesto appropriato e un feedback coerente, infatti, nessuno cercherà di reiterare la richiesta utilizzando altri canali o di forzare la mano cercando un contatto indiretto.
4. Lasciare un piccolo “souvenir” al team: condividere una nota motivazionale, una playlist estiva o una selezione di letture consigliate, per rafforzare lo spirito di squadra e promuovere un clima positivo. Stimolare domande e riflessioni, così come promuovere una cultura aziendale e un purpose valoriale robusto e innovativo, sicuramente potrà aiutare il team a cimentarsi con nuove sfide di crescita personale e magari anche a ragionare su concetti mai approcciati prima che potrebbero poi produrre frutti inaspettati.
5. Fare il check-in mentale: dedicare alcuni minuti a visualizzare la propria vacanza libera da pensieri lavorativi, favorendo così un autentico distacco e un recupero completo delle energie. Saper frapporre uno spazio temporale protetto e privato tra la fine dell’ultima attività e l’inizio del periodo di vacanza per poter realmente assaporare la fine di un intenso periodo lavorativo, al fine di contrapporlo all’inizio di una pausa di relax, consentirà di comprendere meglio il valore e l’importanza di questo break che servirà a ricaricare le batterie prima di una nuova stagione di successi, dando la priorità alla propria vita personale e al proprio benessere, che in fondo rimane sempre il fondamento di ogni percorso equilibrato e vincente.
“In un mondo sempre connesso, la capacità di staccare (letteralmente) rappresenta una forma di leadership personale” – sottolinea Paolo Carnovale, General Manager di GoodHabitz Italia, a corredo del documento. “Quello che vorremmo suggerire, come esperti di formazione, è un piccolo allenamento di consapevolezza dell’importanza del prendersi cura di sé, “soft skill” fondamentale per rafforzare la fiducia, migliorare la collaborazione e rendere il rientro più sostenibile”. In fondo, come visto anche nell’ultima ricerca prodotta proprio da Business International, la knowledge unit di Fiera Milano, “Keep Time & Manage Leadership”, in un epoca, in cui il multitasking la fa da padrone, saper scindere la sfera professionale da quella personale, imparando a prendersi cura di sé è uno degli aspetti più complessi da evolvere e trasformare all’interno di un concetto di leadership che ancora oggi stenta ad abbracciare il cambiamento in atto.
«La più consistente scoperta che ho fatto…è che non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare». Sono le parole di Jep Gambardella ne “La grande bellezza” a guidare la riflessione di Annalisa Ferri, Chief Marketing Officer di Sammontana Italia, in questa intervista rilasciata in occasione della realizzazione della nuova edizione del report annuale dal titolo "Keep Time and Manage Leadership", prodotto da Business International, la knowledge unit di Fiera Milano, pensato per indagare alcuni degli aspetti più importanti da considereare per la leadership del mondo dell'impresa contemporanea e presentato lo scorso 19 giugno 2025 in apertura del Business Leaders Summit, tenutosi presso l'Allianz MiCo di Milano. Uno spunto importante che, in un mondo sempre più velocizzato dall’avvento dell’intelligenza artificiale e reso complesso dalle policrisi in atto, cerca di proporre un approccio diverso al significato e al valore del concetto di tempo per un leader d’azienda, al fine di poter produrre davvero un beneficio competitivo nei confronti del business. «Ho recentemente assistito all'inizio di una profonda trasformazione della mia azienda che ha reso possibile per me una bella opportunità di carriera e un nuovo inizio – spiega la manager –. Per me, e più in generale per tutti noi dipendenti, il tema del tempo è diventato, così, un fattore centrale. Questa riflessione mi impegna e mi affascina e, da sempre, la mia posizione, in merito a questo aspetto, è quella di voler fare ciò che davvero mi appassiona. Nella citazione cinematografica di poco fa ritrovo il senso del tempo come vera ricchezza». Una risorsa preziosa da trattare con cura e rispetto, ma soprattutto con un’intima serietà, in grado di consentirci di rimanere onesti e coerenti con il nostro essere. «Per fare questo – prosegue l’esperta –, serve disincanto e selettività, capacità di preservare sé stessi da attività inutili da ogni punto di vista, rifuggire la superficialità e dedicarsi a ciò che davvero può fare la differenza». Tutti obiettivi che partono da una grande comprensione, sia esterna, guardando al contesto, sia interna, ponendo un importante focus su se stessi. «Credo che sia utile dedicare tempo e risorse personali a capire chi si è, i propri meccanismi di funzionamento, per trovare la nostra personale modalità di gestione, e, poi, un'analisi spietata di ciò che è davvero importante e ciò che non lo è – sottolinea Ferri –. Credo fortemente nella complessità dell'uomo, nella curiosità e nella capacità di nutrirsi in modo onnivoro degli stimoli che arrivano dalla molteplicità della realtà che ci circonda». Un’esigenza, questa, che, però, va alimentata e allenata, senza mai essere sottovalutata, poiché rappresenta il vero motore della nostra crescita personale e professionale. Una virtù senza cui non potremo mai guidare un team o prendere decisioni realmente consapevoli. «Gli strumenti sono commodities alla portata di tutti – prosegue la manager –. Metterli a disposizione non basta, però, come nemmeno formare a utilizzarli potrà mai essere sufficiente. Ciò che davvero serve e servirà, sarà coltivare l'eccellenza nel pensiero: nella capacità di aggiungere valore da parte dei manager sta la differenza sostanziale e il vero cambio di passo lo fanno solo persone complete, che sappiano unire pragmatismo a spirito visionario». Due facce di una stessa medaglia, che spesso vengono proposte e considerate come alter ego contrapposti di una tipologia di leader che, in questo modo, non potrà mai essere realmente completo nel suo modello aspirazionale. Secondo Ferri, infatti, queste due anime dovrebbero coesistere nella stessa persona per poterla rendere una guida efficace e valida, al fine di raggiungere il successo e abbracciare concretamente il cambiamento. Ma anche il cambiamento, per la manager, ha un suo battere e un suo levare da comprendere e misurare, ottimizzare e massimizzare, rimanendo continuamente alla ricerca di quel bilanciamento che sembra ormai essere il vero mantra dei professionisti moderni e che oggi si articola in quella dicotomia tra il tempo utilizzato per lavorare e quello necessario a produrre risultati, il tempo essenziale per gestire le priorità e quello fondamentale per prendersi cura delle persone, il tempo da concedersi e quello da concedere, il tempo perso e quello da non sprecare. Un contesto complesso da gestire e composto da molteplici stimoli, richieste, distrazioni e necessità, nel quale la tecnologia assume un ruolo essenziale, con relativi rischi da evitare e opportunità da cogliere per riuscire a trovare la giusta dimensione del ritmo da tenere per raggiungere il successo, senza dimenticarsi di mettere sempre al centro le persone e le loro esigenze. «Secondo me – aggiunge l’esperta –, non esiste un ritmo. Esiste il proprio ritmo. Ho sempre pensato che la vita si risolvesse in questo: capire il ritmo di ogni situazione e saperlo interpretare. Chi è fuori ritmo rompe qualcosa o finisce per rompere sé stesso. Accettare il tempo che scorre, invece, utilizzare tutti gli strumenti disponibili con la giusta maestria e il giusto distacco, produce un vantaggio importante nella quotidianità di ognuno di noi. Una dose di opportunismo in questo modello diventa la chiave di volta da sfruttare. Io non so quale sia la risposta corretta, so solo che ho sempre cercato di imparare da ogni situazione e di mettere me stessa in tutto quello che facevo, cercando di tenere nel giusto equilibrio felicità e immancabile dose di frustrazione che ognuno di noi sperimenta ogni giorno. Ho coltivato questo approccio, quello che mi ha insegnato il mio professore di filosofia in terza liceo, e ho cercato di aiutare gli altri a praticarlo». D’altronde non esiste una guida certa in questo campo. Non c’è una mappa, ma al massimo una bussola che ci consenta di guardare avanti, proiettando noi stessi e le nostre speranze in un futuro migliore, costruito su un presente equilibrato e focalizzato su quelli che sono i nostri valori principali, sempre con l’idea di continuare a metterci in dubbio, ponendoci domande e sviluppando il nostro pensiero critico. «Un’attitudine – chiosa la manager – che le nuove generazioni dovranno fare sempre più propria, riuscendo a mixare quella leggerezza dell’essere sia come persona, sia come professionista e come manager, gestendo il tempo, ma anche creandolo e proponendolo al proprio team, in un’esplorazione continua e curiosa che li porti a essere più interessati a imparare che non a dimostrare il proprio sapere come banale esibizione del proprio pensiero o del proprio potere. Perché solo ponendosi le giuste domande, mettendosi sempre in dubbio e dando il giusto ritmo a situazioni, conversazioni, priorità e relazioni noi esseri umani e manager possiamo trarre il meglio dal nostro io e dal mondo che ci circonda».
Rapidità, continuità e contemporaneità, visione di lungo periodo, capacità di anticipare gli scenari e di reagire alle criticità. Queste sono solo alcune delle skill che, secondo la nuova ricerca dal titolo “Keep Time and Manage Leadership”, realizzata da Business Internaional, la knowledge unit di Fiera Milano, con il contributo di Federico Ceschel, Ricercatore del Dipartimento di Economia Aziendale, Università Roma Tre, oggi un leader deve avere per poter capire come utilizzare nel modo migliore anche solo una brevissima frazione di secondo utile a prendere la decisione che farà la differenza tra il successo e il fallimento.
Il report, presentato all’Allianz MiCo, il 19 giugno 2025, nel corso dell’apertura della nuova edizione del Business Leaders Summit – la grande manifestazione dedicata ai C-level dell’impresa contemporanea – ha analizzato, inoltre, come, in un’epoca in cui l’intelligenza artificiale spinge l’essere umano a non avere tempo per pensare, ma a dover concentrare tutta la sua attenzione unicamente sull’azione immediata, ogni attività generata proponga inevitabilmente il rischio costante di errori frammentati che, a causa delle loro interdipendenze, possono produrre discontinuità dannose al funzionamento di un’organizzazione se non gestite nel modo migliore. Nonostante la trasformazione digitale in atto, però, a sorpresa stupisce come, secondo i risultati dell’analisi, la maggior parte dei manager italiani (81%) gestisca ancora la propria agenda e le proprie priorità attraverso strumenti analogici, come calendari, agende cartacee e block notes. A sottolineare quanto, in uno scenario complesso come quello che stiamo vivendo, la gestione e la cura del proprio tempo e soprattutto l’impostazione strategica dei punti focali su cui concentrarsi assumano un valore e un ruolo tale da doverne mantenere il saldo controllo manuale e personale.
“D’altronde l’esigenza della gestione del tempo per i leader – ha commentato Ceschel – è un elemento che, come abbiamo potuto verificare anche nella survey, non si pone più solo come una semplice tecnica organizzativa, ma come una sorta di pratica esistenziale per governare il nuovo ritmo di una quotidianità sempre più artificiale e sempre meno umana, nella quale la vera sfida non è trovare più tempo, ma usare quest’ultimo come uno spazio strategico per costruire futuro”
LA SURVEY
L’analisi è stata condotta su un campione di oltre 100 tra HR Director, Chief Financial Officer, Chief Procurement Officer, Chief Risk Officer, Chief Information Officer e Chief Marketing Officer, attivi in alcune delle più importanti aziende nazionali e internazionali operanti sul territorio italiano, che sono stati intervistati tra il mese di febbraio e quello di aprile 2025. Obiettivo del questionario somministrato è stato, quindi, quello di comprendere meglio, e più approfonditamente, come oggi i professionisti alla guida delle imprese sappiano gestire il proprio tempo e quello dei propri collaboratori, facendo fronte alle sfide proposte dai mercati e dai cambiamenti in atto, non solo in termini di trasformazione digitale, ma anche di nuove esigenze culturali, sociali, organizzative e valoriali che influenzano in maniera sempre più significativa il mondo del business. Un tema di grande attualità che, tra l’altro, ha fatto anche da filo conduttore alle conversazioni dei sei eventi verticali che hanno composto il palinsesto del Business Leaders Summit e che hanno permesso ai C-level intervenuti di confrontarsi e capire l’importanza di una risorsa così preziosa in scenari di grande complessità e incertezza, come quelli che stiamo vivendo. Basti pensare infatti che, secondo una recente ricerca di Forbes, se fino a qualche anno fa in cima ai desiderata dei recruiter erano presenti skill tecniche e tecnologiche, legate principalmente alla gestione dei dati e all’adozione di nuove applicazioni di AI, oggi la tendenza è decisamente cambiata e le soft skill, come la comunicazione efficace, l’intelligenza emotiva, l’ascolto continuo e, per l’appunto, la gestione del tempo, hanno raggiunto la vetta delle priorità delle organizzazioni alla continua ricerca di nuovi leader che le sappiano traghettare nel futuro. Una richiesta di talenti che, però, secondo una recente indagine di LinkedIn, sembra essere tutt’altro che semplice. L’analisi, inoltre, sottolinea come, a livello globale, più di 8 professionisti su 10 (82%) non siano in grado di gestire il tempo in maniera efficace sul posto di lavoro e più del 40% nel 2024 si sia iscritto o abbia partecipato a un corso di time management.
Se a livello internazionale la fotografia è questa, però, in Italia il polso della situazione è leggermente differente con il 60% degli intervistati che dichiara di essere soddisfatto della propria gestione del tempo. In questo scenario, inoltre, la maggior parte dei rispondenti conferma di riuscire a gestire le scadenze proposte dal proprio lavoro attraverso l’identificazione di chiari obiettivi (21%), la creazione di obiettivi multilivello di breve e lungo periodo (21%) o la scomposizione dei compiti in attività più ridotte (13%), ma in pochi (solo il 9%) indicano di monitorare con costanza l’avanzamento dei propri risultati nella gestione di obiettivi e scadenze. Questo sottolinea come spesso la pianificazione non trovi il riscontro necessario alla sua funzionalità, rendendo molto diffuse, per esempio, skill di adattamento e flessibilità agli imprevisti e alle emergenze, che vengono indicate dai professionisti nel 35% dei casi come capacità di ricalibrazione delle proprie priorità, sottolineando una grande propensione all’improvvisazione momentanea, che sembra emergere più come reattività anziché come capacità deliberata di riformulare strategie in maniera proattiva. E in questo scenario, il rischio maggiore è quello di incappare in errori tecnici che rendono impossibile la gestione delle priorità stesse. Tra gli sbagli più comuni, sotto questo punto di vista, figurano l’interruzione per attività non pianificate (44%) e l’incapacità di dire di no a richieste esterne (42%). Questi comportamenti segnalano una vulnerabilità organizzativa legata alla permeabilità dei confini lavorativi e all’assenza di norme condivise sulla protezione del tempo che, in questo modo, non viene identificato come risorsa scarsa e preziosa di cui prendersi cura. Una sottovalutazione resa ancora più forte da due aspetti che, in quest’era post-Covid, rendono ancora più complesso il panorama e che sono molto più frequenti di quanto ci si aspetterebbe, ovvero: l’emergere continuo di urgenze non pianificate (37%) e la bassa qualità delle riunioni organizzate (30%). Oltre a questo, poi, risulta chiaro anche che se, da un lato, l’utilizzo di calendar digitali, ormai, nel nostro Paese è abbastanza diffuso (73%), l’utilizzo di piattaforme per la collaboration, invece, non è ancora così considerato. Solo il 7% dei rispondenti, infatti, lo identifica come strumento funzionale alla gestione del proprio tempo e di quello dei propri collaboratori, rafforzando quindi l’impressione rilevata in precedenza e relativa a una scarsa considerazione del tempo di tutti, come risorsa fondamentale per gestire flussi e processi di lavoro. Come detto all’inizio, però, il gap tecnologico non si fa sentire solo negli strumenti di collaboration, ma proprio anche nell’uso di strumenti necessari alla gestione delle proprie priorità. In questo senso, infatti, solo il 19% degli intervistati ha dichiarato di utilizzare strumenti digitali per il time management, mentre la maggior parte del campione (35%) conferma che lo strumento migliore per gestire le proprie attività e la definizione della loro importanza è la creazione di una to-do-list scritta a mano e il 28% afferma che nulla può sostituirsi all’agenda cartacea. A dimostrazione di quanto sia importante oggi per i manager avere proprio un controllo fisico del tempo e delle loro priorità. Un’esigenza che tra l’altro spesso si traduce anche in una forma di incapacità nella delega che porta quasi 1 manager su 5 (18%) a gestire in prima persona le urgenze e le questioni più critiche. Una tendenza, questa, che comprometterebbe, poi, il raggiungimento dei quattro principali benefici prodotti da una buona strategia di gestione del tempo e individuati dai manager coinvolti nella survey in fattori come: una maggiore capacità di pianificazione strategica (21%), una riduzione dello stress decisionale (17%), una migliore prioritizzazione delle attività (23%) e un incremento del tempo dedicato alla riflessione (22%). Asset fondamentali per poter ottenere il massimo dalla propria quotidianità professionale che richiedono, però, anche delle competenze specifiche da acquisire necessariamente, come per esempio l’automazione dei processi, che il 19% degli intervistati vede come una hard skill su cui bisogna lavorare per il futuro, o l’attivazione di un decision making più rapido, che il 19% dei rispondenti vede come una soft skill di grande valore, a cui si unisce anche l’abilità di comunicare in modo efficace (13%), o la gestione del cambiamento (22%) e delle emergenze (18%), che sono skill tipiche degli ambienti ad alta complessità.
I QUATTRO TIPI DI MANAGER ALLA PROVA DEL TEMPO
Dati, quelli emersi nella ricerca, che hanno portato infine a identificare anche quattro tipologie di manager moderni, elaborate in base alla capacità di gestire il tempo e le priorità, proprie e dei propri team. Attraverso una cluster analysis è stato possibile, così, evidenziare una suddivisione dei principali idealtipi di leader che oggi guidano le imprese e che definiscono l’approccio al concetto di tempo da parte di ogni professionista.
Il primo profilo è quello dell’”Orchestratore Strategico”. Figura manageriale di riferimento nei contesti complessi, questo tipo di manager è colui che riesce a trasformare il tempo in uno strumento di leadership. Rappresenta il vertice dell’intenzionalità e della strutturazione: guida il proprio team con una visione chiara, una pianificazione accurata e una capacità di delega ben consolidata. È il tipo di manager che non solo governa il tempo, ma lo progetta, attribuendogli valore strategico nel disegno organizzativo.
Il secondo profilo, poi, è quello dell’”Equilibrista Riflessivo”. Un manager che unisce sensibilità e capacità gestionale. Si muove con consapevolezza tra struttura e flessibilità, tra visione e operatività. È riflessivo, osserva sé stesso, apprende dall’esperienza e valorizza la coerenza tra azioni e valori. Non punta tanto all’efficienza quanto alla sostenibilità del proprio ruolo nel tempo. La sua forza sta nella capacità di adattarsi con consapevolezza, ma questo equilibrio è fragile e necessita di riconoscimento e supporto.
Il terzo profilo, invece, è quello dell’”Esecutore Organizzato”. Figura concreta, operativa, centrata sull’efficienza, questo tipo di manager incarna l’idealtipo del manager che tiene le redini del tempo grazie alla pianificazione meticolosa e all’utilizzo sistematico di strumenti. Il suo approccio è pragmatico: struttura, controlla, misura. Rappresenta la certezza della continuità organizzativa ma può rischiare di irrigidirsi, perdendo contatto con l’evoluzione e con il senso più profondo delle azioni che svolge.
Il quarto e ultimo profilo, infine, è quello del “Navigatore Reattivo”. Il manager esposto al caos, all’urgenza continua, alle interruzioni. Il suo tempo è costantemente frammentato, la sua attenzione sotto attacco. Si difende come può: improvvisa, reagisce, incassa. Spesso opera in PMI o in ruoli operativi dove mancano strumenti, delega, supporti organizzativi. È resiliente, capace di affrontare pressione e incertezza. Ma il rischio di burnout è alto, così come quello di perdita di direzione. Il navigatore reattivo ha bisogno di formazione, strumenti e riconoscimento per trasformare la sopravvivenza in capacità di guida.