Pandemie, tensioni geopolitiche e crisi dovute ai cambiamenti climatici. Negli ultimi anni i cambiamenti si susseguono in maniera sempre più veloce e imprevedibile. In questo contesto diventa sempre più difficile anche solo pensare di poter prevedere quello che accadrà nel prossimo futuro, per i singoli come per le aziende. Nel momento in cui, a risolvere i problemi concreti sono sempre più delle macchine, l'attività per eccellenza del design umano diventa la creazione di senso.
Mentre nel mondo tecnologico si affermano approcci predittivi, il Design Thinking si evolve per diventare sempre di più il metodo capace di disegnare, modellare e riflettere sul futuro, che in azienda non può essere previsto ma solo realizzato. Come processo di innovazione che integra capacità analitiche con attitudini creative, il Design Thinking si sta affermando come supporto per immaginare il futuro desiderabile per la propria organizzazione, in base a tre diversi approcci che permettono di muoversi da una logica predittiva ad una progettuale: foresight, entrepreneurship as design o discursive design. Per gestire la trasformazione necessaria a creare un futuro desiderabile, però le aziende devono essere capaci di equilibrio e di adattamento strategico, mentre proprio le tecnologie digitali, e in particolar modo l’intelligenza artificiale, arrivano in aiuto per facilitare il processo creativo.
Un concetto, questo, che abbiamo voluto approfondire meglio attraverso i risultati del nuovo Osservatorio Design Thinking For Business della School of Management del Politecnico di Milano, anche in vista della prossima edizione del CEO Italian Summit & Awards, organizzato da Business International - Fiera Milano, in collaborazione con Forbes Italia, e previsto il 30 novembre 2023 presso l'Hotel Principe di Savoia di Milano.
“I futuri a 5, 10 anni non possono essere predetti, ma devono essere immaginati e co-progettati da diversi stakeholder – spiega Claudio Dell’Era, Direttore dell’Osservatorio Design Thinking for Business -. Inoltre, per renderli possibili devono essere perseguiti attraverso una serie di azioni nell’oggi che influenzano il domani. Proprio per questo l’osservatorio quest’anno ha cercato di comprendere come tre approcci differenti influenzassero la percezione rispetto al desiderio, valore e probabilità di accadimento dei futuri immaginati e modellati, mostrando come un approccio di design possa facilitare tale processo”. “Nel ricercare un futuro incerto più informazioni si hanno più robusta e profonda sarà tale progettazione – dichiara Roberto Verganti, Responsabile Scientifico dell’Osservatorio Design Thinking for Business -. Proprio per questo aspetto un utilizzo avanzato dell’Intelligenza Artificiale nel supportare e stimolare con reinterpretazione di dati e/o generazione di nuovi insights può aiutare a progettare i futuri. La ricerca, accademica e non solo, ci sta dimostrando però come l’Intelligenza Artificiale può aiutare anche a riformulare e stimolare la creatività rispetto alle sfide che si pongono di fronte a noi, in questo senso l’Intelligenza Artificiale si pone come strumento a supporto e non in sostituzione di leader e manager”. “Progettare il futuro implica una forte dimensione di desiderio e aspettativa – commenta Francesco Zurlo, Responsabile Scientifico dell’Osservatorio Design Thinking for Business -. L’uomo è al centro più che mai in questo processo ed è per questo che non c’è futuro senza trasformazione e non c’è trasformazione senza persone. Quest’anno di ricerca ci ha mostrato ancora di più come l’aspetto umano della progettazione sia fondamentale in questo processo di immaginazione e realizzazione di futuri”.
L’Osservatorio Design Thinking for Business ha individuato tre diversi approcci per le aziende che vogliono immaginare e creare futuri desiderabili. Il primo, foresight, è un approccio sistematico e strutturato per pensare al futuro analizzando tendenze, driver e incertezze che daranno, per utilizzare queste informazioni creando una gamma di possibili scenari. Questi scenari possono essere utilizzati per identificare opportunità e sfide che potrebbero sorgere e per sviluppare strategie per modellare il futuro in modo desiderabile. Il secondo approccio, entrepreneurship as design, vede l'imprenditorialità come una forma di design. Implica l'applicazione dei principi del pensiero progettuale al processo di imprenditorialità, identificando e creando opportunità che possono portare allo sviluppo di nuovi prodotti, servizi o attività. Sottolinea l'importanza della creatività, dell'innovazione e della sperimentazione nel processo imprenditoriale e incoraggia gli imprenditori ad essere aperti a nuove idee e ad assumersi rischi calcolati. Il terzo approccio, il discursive design, si basa sull'idea che il design sia un processo sociale che coinvolge il dialogo e la negoziazione tra designer, stakeholder e utenti, coinvolgendo le parti nel processo di progettazione, considerando il design strumento non solo per creare prodotti o servizi, ma anche per creare sistemi e strutture sociali che supportano futuri desiderabili.
Per gestire la trasformazione necessaria a creare un futuro desiderabile, rileva l’Osservatorio, nelle organizzazioni serve adattamento strategico ed equilibrio nella progettazione del futuro. L'adattamento strategico significa garantire che le azioni intraprese per modellare il futuro siano coerenti con la strategia e gli obiettivi generali dell'organizzazione. Richiede comprensione della visione, della missione, dei valori e degli obiettivi dell'organizzazione, nonché una comprensione dei fattori esterni che possono influenzare la capacità di raggiungere gli obiettivi. Equilibrio significa garantire che le azioni intraprese per modellare il futuro siano equilibrate in termini di rischio, complessità e impatto. Richiede una considerazione dei potenziali rischi e benefici delle diverse azioni, nonché una comprensione di come queste azioni si integrino per creare un approccio coerente ed efficace.
Nel valutare la progettazione del futuro, bisogna considerare quattro dimensioni: la plausibilità (il grado con cui le azioni intraprese per modellare il futuro sono realistiche e fattibili), la novità (quanto sono innovative e diverse dagli approcci esistenti), la significatività (quando allineate ai valori e gli obiettivi dell'organizzazione), la desiderabilità (quanto attraenti e convincenti per le parti interessate). Infine, bisogna garantire che le azioni intraprese per plasmare il futuro abbiano un impatto sugli obiettivi di sviluppo sostenibile (SDG
L’applicazione dei diversi approcci negli scenari futuri sviluppati dai team che hanno aderito al primo Design Thinking 23 LAB attraverso un sondaggio post-laboratorio evidenzia gli effetti dei diversi approcci sull’intensità e la natura del cambiamento. Gli scenari futuri generati dai team che hanno seguito un processo di Foresight sono caratterizzati da valori alti di plausibilità, valori medi di novità, valori medi di significatività e valori medio-bassi di desiderabilità. Gli scenari futuri generati dai team che hanno seguito un processo di Entrepreneurship as Design sono caratterizzati da valori alti di plausibilità, valori medi di novità, valori medio-alti di significatività e valori alti di desiderabilità. Gli scenari futuri generati dai team che hanno seguito un processo di Discursive Design sono caratterizzati da alti valori di plausibilità, valori medio-bassi di novità, alti valori di significatività e alti valori di desiderabilità. La maggiore differenza nei tre approcci di futuro si osserva quindi nella dimensione della Significatività e della Desiderabilità, che sono più alte per l’Entrepreneurship as Design e il Discursive design rispetto al Foresight. Dall’altro lato, il grado di plausibilità presenta valori uguali nei tre approcci futuri.
Quasi tutti i CEO a livello globale si dichiarano pronti ad affrontare una fase di rallentamento dell’economia attesa nel prossimo futuro. Non è però solo l'inflazione o l'innalzamento dei tassi d'interesse a preoccupare, ma anche un'inevitabile stagnazione del business a cavallo tra costi di produzione e capacità d'acquisto che impone alle imprese di trovare nuove strategie per poter mantenere il passo con i tempi, continuando a investire su trend di crescita come la trasformazione digitale, la sostenibilità e il benessere della propria forza lavoro.
Elementi questi che i capitani d'impresa tanto nel nostro Paese, quanto a livello globale, devono tenere sempre più in considerazione e su cui abbiamo voluto ragionare più approfonditamente, attraverso l'analisi dei risultati emersi dall’ultima edizione dell’EY CEO Outlook Pulse. Un'indagine che ha registrato le opinioni di oltre 1.200 business leader in tutto il mondo (dei quali oltre 50 in Italia) sulle prospettive, sfide e opportunità delle aziende, nel difficile contesto in cui operano, e che vi proponiamo di seguito in vista della prossima edizione del CEO Italian Summit & Awards, organizzato da Business International - Fiera Milano e prevista il 30 novembre 2023 all'Hotel Principe di Savoia di Milano.
Secondo i risultati della survey EY CEO Outlook Pulse, infatti, i CEO di tutto il mondo hanno mostrato preoccupazione per le prospettive dell'economia globale e del loro settore, ma il 98% ha dichiarato di aver già avviato programmi di trasformazione per adattarsi ai mutamenti portati dallo scenario attuale e in continuità con quanto avviato a seguito della crisi legata alla Pandemia che già aveva richiesto una forte capacità di adattamento alle aziende in tutto il mondo. Due le strategie più diffuse tra i CEO: continuare ad agire sulla riorganizzazione delle supply chain (secondo il 44%) e riconfigurare le strategie di investimento (il 42%). "Negli ultimi anni le nostre aziende, l’imprenditoria, ma anche il sistema Italia in generale - ha commentato Massimo Antonelli, CEO di EY in Italia e COO di EY Europe West -, hanno dimostrato che quanto più grandi sono state le discontinuità da affrontare, più profonde sono state le trasformazioni messe in campo. La nostra ultima analisi EY CEO Outlook ci conferma che una delle ragioni di questo spirito di trasformazione è che i CEO hanno acquisito una capacità di reazione senza precedenti: oggi quasi il 100% di loro si aspetta una fase di rallentamento economico, ma si è già preparato ad affrontarla. Sono infatti già pronti programmi di trasformazione aziendale, tramite politiche di efficientamento – il 44% pensa di riorganizzazione la supply chain – o tramite strategie di sviluppo – il 42% rivede la strategia di investimento pianificata – per cogliere nuove opportunità e per gestire eventuali rischi. Le precedenti fasi di disruption hanno dimostrato che i CEO che hanno investito e immesso fiducia nel sistema durante le fasi critiche, ne hanno poi beneficiato maggiormente in fase di ripresa. La capacità di trasformazione è, oggi più che mai, una delle chiavi per la creazione di valore nel lungo periodo”.
Il contesto critico attuale è causato sicuramente dal perdurare degli effetti della pandemia, ancora visibili in alcuni mercati e aree geografiche, ma soprattutto dalle tensioni e incertezze generate dal conflitto in Ucraina. Questo, inoltre, si è sovrapposto ad uno scenario geopolitico già complesso che sta determinando una contrazione della domanda, aggravata dagli effetti economici dell’inflazione, dalla ridotta reperibilità di merci e materie prime e dall’incremento del costo del denaro. Uno scenario che i CEO rilevano con grande preoccupazione: oltre la metà dei rispondenti italiani ritiene che questa crisi potrà essere più pervasiva di quanto sperimentato in passato, in quanto è destinata ad incidere maggiormente sui modelli operativi e di business. È quanto si evince anche dalle risposte dei CEO italiani che identificano tra i principali rischi per la crescita e lo sviluppo del proprio business proprio l’incremento delle tensioni geopolitiche (40%), l’impatto del cambiamento climatico e le implicazioni normative attorno ai temi della sostenibilità (38%), le incertezze in termini di politiche monetarie e di costo del denaro (36%). Quest’ultimo è peraltro considerato il principale rischio da fronteggiare da parte delle aziende europee (per il 35% degli intervistati) e tra i più importanti anche per le aziende americane (30%).
Tra i principali driver che inducono a rivedere le strategie di investimento troviamo, per il 29% dei CEO italiani, le politiche commerciali e di investimento, che hanno soppiantato le problematiche relative alla pandemia – preoccupazione oggi solo dell’8% nel nostro Paese, contro il 32% dello scorso ottobre, e del 19% a livello globale - e al conflitto in Ucraina – segnalato dal 22% in Italia, contro il 39% di ottobre, e dal 10% a livello globale. In un momento storico di grandi cambiamenti come quello che stiamo vivendo, dunque, i CEO si trovano a dover ripianificare le proprie priorità di investimento a breve e lungo termine, anche nelle attività di business. I CEO italiani, ma anche a livello global, mostrano molta consapevolezza e attenzione rispetto ai temi di efficientamento delle operation, anche nel breve periodo, con particolare attenzione alla gestione del capitale circolante (94%), revisione della struttura di attivo e passivo (92%) e riduzione dei costi (90%). Sempre in termini di efficientamento, i CEO intervistati hanno dichiarato di essere intenzionati a considerare azioni di adeguamento dei programmi di gestione del personale, azione che recentemente abbiamo visto intraprendere in particolare da aziende di spicco nel settore tecnologico. Soltanto l’8% dei CEO italiani è fiducioso del proprio percorso di crescita e continua ad investire nei propri dipendenti. Questo approccio più focalizzato su obiettivi di breve termine, anche in termini di riduzione costi, però rischia di minare le prospettive di crescita a medio lungo termine. Soprattutto se teniamo conto che la strategia di investimento sul talento applicata da molte aziende negli ultimi anni si è dimostrata assolutamente vincente. Ciò illustra la linea sottile che i CEO dovranno percorrere durante questo periodo critico, in equilibrio tra la gestione dei costi e la capacità di mantenere gli investimenti nei propri talenti. In questo contesto, la leva M&A mantiene un’assoluta rilevanza per consentire alle aziende di coniugare obiettivi di breve termine e riposizionamento strategico nel medio e lungo periodo. “Nonostante il momento storico di grande incertezza che stiamo vivendo - ha spiegato Marco Daviddi, Strategy & Transactions Markets Leader Europe West, EY -, dalla nostra indagine emerge che il 100% dei CEO intervistati in Italia sta attivamente perseguendo transazioni e operazioni straordinarie. La maggior parte di essi (56%) attraverso Joint Venture e alleanze strategiche con altri operatori in quanto sono soluzioni più flessibili e consentono di ridurre l’esposizione debitoria, in un periodo di tassi di interesse in crescita come questo. Inoltre, il 96% degli intervistati conferma di voler investire secondo una logica di friendshoring, ovvero in Paesi con solide relazioni geopolitiche e di business, modalità ormai consolidata sul mercato che conferma anche il dato emerso sulle preoccupazioni diffuse per quanto riguarda le tensioni geopolitiche. Rimane importante, invece, la necessità di affrontare le tematiche ESG attraverso processi di crescita esterna, con l’obiettivo (per circa i due terzi degli intervistati) di saper più facilmente rispondere a spinte innescate da cambiamenti regolatori, basti ricordare, ad esempio, la recente normativa europea sulle auto a propulsione elettrica e di diversificare la propria offerta di prodotti e servizi per intercettare la nuova domanda espressa dal mercato” .
I focus, dunque, rimangono su sostenibilità e criteri ESG (per il 50% dei CEO intervistati tra le azioni chiave da intraprendere nei prossimi mesi), l’agenda di investimento dei CEO italiani vede una rinnovata attenzione verso Innovazione, Ricerca e Sviluppo anche attraverso lo strumento del Venture Capital (44%), la diversificazione del proprio portafoglio di prodotti e servizi attraverso acquisizioni di business in settori adiacenti al core business (38%) e l’adozione di nuovi modelli di lavoro per attrarre nuovi talenti (32%). Nonostante queste intenzioni, però, nei primi 2 mesi del 2023, l’attività M&A in Italia ha rallentato il ritmo rispetto al brillante risultato del 2022: 144 transazioni per un valore aggregato di € 3,0 miliardi a febbraio 2023, con un calo del 28,4% rispetto alle 201 transazioni del primo bimestre 2022. Lo stesso trend si è registrato anche relativamente alle acquisizioni realizzate dalle aziende italiane sui mercati esteri, con 65 operazioni a febbraio 2023 e un valore aggregato di € 4,9 miliardi, rispetto alle 85 operazioni dei primi 2 mesi del 2022. “La frenata di operazioni M&A effettivamente completate o annunciate nella prima parte del 2023 era attesa e il dato non ci sorprende - ha concluso Daviddi -. Continua ad essere presente sufficiente liquidità sui mercati, ma ad un costo più alto. Ciò sta determinando degli impatti sulle attese di ritorno degli investimenti e sui multipli transazionali, peraltro in un contesto nel quale i margini sono sotto pressione. Nella prima parte dell’anno continuerà questo trend, con più difficoltà a trasformare la liquidità in progetti di investimento, anche per una più complessa composizione negoziale tra le aspettative dei venditori e disponibilità degli acquirenti. Allo stesso tempo, imprenditori e CEO si stanno attrezzando per cogliere opportunità di investimento o disinvestimento, per reindirizzare risorse e asset verso le opzioni strategiche individuate. Non a caso il nostro osservatorio di mercato evidenzia una crescita significativa delle aziende sul mercato (+23%) rispetto a 12 mesi fa. Ci sono le condizioni per un assestamento di multipli e costi finanziari, elementi che potrebbero far ripartire le operazioni straordinarie che, sempre più, rappresentano un fattore critico di successo nella prospettiva di crescita a medio-lungo termine”.
Secondo i dati di alcune recenti ricerche sul tema del gender gap e della D&I, in Italia oggi ci sono più donne laureate (58,7%) rispetto agli uomini (41,3%), ma una volta entrate nel mercato del lavoro, nella maggior parte dei casi lo svolgono in modalità part time 49% contro il 26,2% della componente (Inapp, 2022), dimostrando ancora le difficoltà che affrontano: stereotipi, discriminazione e la difficoltà di conciliare vita lavorativa e personale, in particolare dopo l’esperienza del covid-19. Infatti, è stato proprio il covid a rivoluzionare completamente il mondo del lavoro odierno: continua a crescere il lavoro da remoto e l’uso dell’intelligenza artificiale nell’automazione. Per sviluppare questa tecnologia serve tanta ricerca, in particolare nelle materie scientifiche e tecnologiche. In Italia il 24,9% dei laureati (tra i 25 e i 34 anni) ha un titolo di studi in STEM, ma il divario di genere è molto marcato: la quota sale al 36,8% tra gli uomini (oltre un laureato su tre) e scende al 17% tra le donne (una laureata su sei). Allarmanti quindi anche i dati riguardo le professioni digitali più richieste del 2022, che includono robotics engineer, data scientist e cloud architect, ma nel nostro Paese solo il 12% dei professionisti in cloud computing sono donne, e rappresentano il 15% dei data analysts e il 26% dei professionisti in intelligenza artificiale (Rome Business School, ER 2022). Secondo l'Osservatorio E-Work (2018), le lavoratrici italiane hanno uno stipendio mediamente inferiore del 27,8% rispetto a quello dei colleghi maschi, con una retribuzione oraria di 15,2 euro rispetto i 16,2 euro per gli uomini (Istat, 2022). Inoltre, nel Mezzogiorno, è occupato solo un terzo delle donne tra i 15 e i 64 anni e il World Economic Forum (2021) mette l’Italia al terzo posto, solo dopo la Grecia e la Costa Rica, nella classifica della disoccupazione delle giovani donne.
Questi sono solo alcuni dei consueti dati che la cronaca, la statistica e forse anche il luogo comune tricolore (e non solo), si portano dietro da anni, figli di un retaggio culturale complesso da scardinare, al netto di esempi eclatanti di cui il nostro territorio si è recentemente reso protagonista, come la prima premier donna nella storia della nostra repubblica o la prima presidente della Cassazione e simili. Tutti simboli di un'opportunità che ormai è chiara a tutti: non possono e non devono più essere solo gli uomini a ricoprire posizioni di potere.
In occasione della Festa della Donne e in un mondo del business in continuo mutamento, però, ci siamo chiesti: come poter rompere, finalmente e concretamente, un soffitto di cristallo che per decenni è apparso infrangibile? Ciò che abbiamo compreso, dopo un'analisi approfondita di vari studi di ricerca, è che anche in questo caso tanto le aziende, quanto le professioniste, si trovano davanti a una strada a doppio senso, dove l'impegno deve essere reciproco e solo con fiducia e collaborazione si possono raggiungere grandi obiettivi. Così, anche in vista della prossima edizione di HR Directors Summit - la manifestazione dedicata al mondo delle risorse umane, organizzata da Business International - Fiera Milano e prevista il prossimo 14 e 15 giugno 2023 presso Allianz MiCo - Milano Convention Centre, all'interno del Business Leaders Summit -, abbiamo cercato di trovare quanto meno un'indicazione di massima per percorrere questa roadmap in entrambe le direzioni, attraverso una sintesi approfondita di due whitepaper realizzati da CoachHub e Indeed per offrire dei consigli sia al management aziendale, sia alle professioniste sui passi da compiere al fine di trovare la giusta interpretazione di questa sfera lavorativa che non può più essere sottovalutata, ma anzi va tenuta sempre più in considerazione per ridurre le diseguaglianze e rendere le organizzazioni sempre più sostenibili a 360 gradi.
Come abbiamo capito, dunque, sebbene molti passi in avanti siano stati fatti per ridurre il gender gap sul luogo di lavoro, raggiungere la piena parità di genere è un obiettivo ancora lontano. Per andare sempre più in questa direzione, l’analisi delle varie tappe del percorso professionale può aiutare i responsabili HR e il management ad attuare le giuste misure per colmare il divario vissuto in particolar modo dalle donne. Così, per favorire un maggiore sostegno alle donne in azienda e incentivarne l'empowerment, gli esperti di CoachHub hanno elaborato alcuni consigli pratici legati alle fasi chiave dell'employee experience, in cui il supporto alle esigenze specifiche di ogni donna può essere il punto di partenza per la loro crescita come leader.
Una visione del mercato, quella proposta da CoachHub, che è stata confermata anche in un recente sondaggio di Indeed che ha sottolineato come i pregiudizi o le discriminazioni siano stati il principale ostacolo che le donne italiane hanno ritenuto di dover affrontare nella ricerca di un lavoro. In occasione della Giornata Internazionale della Donna, quindi, gli esperti del sito per chi cerca e offre lavoro, hanno voluto raccogliere il racconto di chi è riuscito a “rompere il soffitto di cristallo” per proporre 10 consigli di buon senso, frutto di anni di confronto con numerose donne che hanno saputo raggiungere posizioni di successo:
10 step fondamentali, questi, per costruire la propria figura e la propria dimensione profassionale, che non rappresentano solo un vade mecum, ma possono diventare la struttura portante di una cultura di approccio personale al mondo del lavoro, in grado non solo di essere funzionale alla singola professionista, ma anche a un'intera generazione di lavoratrici a cui trasferire valori ed esempi pratici per superare e abbattere quelle barriere ancora oggi presenti negli uffici di tutto il mondo e che sempre di più raffigurano un'immagine sbiadita e in bianco e nero del concetto di lavoro. Un disegno in cui nessuno può e potrà più riconoscersi se davvero si vuole e si vorrà rimanere al passo con i tempi e magari anche guardare a un futuro diverso, dove crescita, innovazione e sostenibilità, non risultino solo bei sostantivi - per altro tutti femminili - ma siano i veri goal da raggiungere.
Il sistema della formazione manageriale italiana rappresentato da Asfor – Associazione Italiana per la Formazione Manageriale governa con piena consapevolezza la digitalizzazione nell’ambito dei processi di apprendimento, facendo dell’innovazione tecnologica un efficace strumento strategico per l’evoluzione dei modelli formativi e dei contenuti nella management education.
Questo, in estrema sintesi, il dato che emerge dalla ricerca “Verso una strategia di Digital Teaching & Learning nella formazione manageriale”, promossa da Asfor in collaborazione con PoliMi Graduate School of Management, con il contributo di SDA Bocconi School of Management e MIB – Trieste School of Management, presentata ieri a Milano presso il Campus Navigli della PoliMi Graduate School of Management e che abbiamo voluto analizzare più approfonditamente di seguito, anche in vista dei prossimi appuntamenti del Calendario di eventi formativi proposto da Business International - Fiera Milano per il 2023.
«Obiettivo della ricerca - spiega Tommaso Agasisti, Associate Dean for Internationalization and Quality di POLIMI Graduate School of Management, consigliere Asfor e coordinatore scientifico della ricerca -, intrapresa nell’autunno del 2021 e proseguita per tutto il 2022, è stato quello di fornire evidenze sulla trasformazione digitale nella formazione manageriale, arrivando alla formulazione di linee guida a supporto della transizione strategica degli enti formativi ed evidenziando sfide e opportunità del digitale». Prendendo le mosse dall’analisi della letteratura accademica internazionale disponibile, infatti, lo studio ha coinvolto in una survey i rettori e i responsabili della formazione di 42 enti formativi associati ad Asfor, tra cui 21 delle principali School of Management italiane, 1 consorzio universitario, 11 tra società di consulenza, società di formazione e aziende, 9 Corporate Academy di grandi gruppi. Tre focus group hanno approfondito i dati quantitativi, delineando lo stato dell’arte, la maturità e le linee evolutive del digitale nella formazione manageriale. Da questo processo investigativo, quindi, è emerso chiaramente come il tema della digitalizzazione sia strategico per tutti i sottogruppi coinvolti nella survey, specie per le School of Management, che lo sottolineano nel 95% dei casi. Sul fronte dell’impegno economico, sono però le Corporate Academy i soggetti più attivi, che in media investono nella trasformazione digitale il 25% del loro budget, a fronte di investimenti più ridotti da parte degli altri soggetti attivi nella formazione, che si fermano al 10%. Diversi anche gli obiettivi che spingono all’introduzione dei nuovi strumenti: mentre le Corporate sono più interessate al contenimento dei costi e all’aggiornamento tecnologico, le School of Management e le società di formazione puntano alla qualità e all’innovazione dell’offerta formativa, con un’attenzione precipua alla progettazione dei contenuti e all’integrazione delle metodologie didattiche.
Sul fronte delle soluzioni adottate, prevalgono e crescono quelle per l’apprendimento ibrido e le piattaforme LMS custom, mentre è ancora limitato il ricorso a tecnologie avanzate quali blockchain, intelligenza artificiale, realtà aumentata/virtuale/mixed e gaming, in aumento nei prossimi anni specie presso le Corporate Academy. In termini di design e progettazione dei contenuti, nelle School of Management è molto forte la componente di instructional designer, presente nell’82% delle organizzazioni e più limitata nelle Corporate Academy, dove è minore la presenza di personale docente interno. Infine, le School of Management mostrano una propensione non solo attuale ma anche futura all’implementazione della classe ibrida, mentre Società e Corporate Academy sono più propense a classi online o a formule blended, con parte del programma svolto in presenza e parte online per la stessa aula.
«Tecnologie, formati educativi, design e progettazione dei contenuti, competenze e data analytics sono le dimensioni più significative nell’ambito della transizione verso il Digital Teaching & Learning nella management education - afferma il presidente di Asfor, Marco Vergeat -. A monte di ogni analisi, è stato importante sottolineare come il tema della trasformazione digitale sia una questione strategica e multidimensionale, che coinvolge tutte le parti dell’organizzazione imponendo un ripensamento dei processi di apprendimento, dei contenuti e dei fini della formazione manageriale». «La trasformazione digitale - aggiunge Federico Frattini, Dean di PoliMi Graduate School oagemf Manent - non riguarda solo le tecnologie, ma anche e soprattutto le persone, dai manager al personale docente. In secondo luogo si tratta di un tema di prodotti, di scelta dei formati educativi e della modalità di erogazione dei contenuti. Poi vi è un tema pedagogico, legato al design dei contenuti e alle modalità più adatto ai vari formati. Infine, vi è un tema di trasformazione dei processi, dal momento che la trasformazione digitale impatta sul design dei nuovi percorsi oltre che sulla pubblicazione, distribuzione e aggiornamento dei contenuti».
In chiave prospettica, i risultati della ricerca evidenziano rischi e opportunità legati all’adozione delle tecnologie digitali nella management education: se il Digital Teaching&Learning offre enormi potenzialità legate al micro-learning e all’apprendimento continuo, occorre scongiurare il rischio di una eccessiva frammentazione e concentrarsi sulla raccolta dei contenuti in programmi omogenei. Dal punto di vista organizzativo, la sfida strategica più rilevante riguarda il cambiamento culturale della faculty e delle organizzazioni, mentre una terza sfida riguarda il mix di competenze e di tecnologie da utilizzare all’interno dei programmi. Infine, è vivo il dibattito sull’utilizzo delle applicazioni, come per esempio il metaverso, per rafforzare l’esperienza di apprendimento e sulle opportunità di ampliamento del target, di raccolta delle informazioni e monitoraggio dell’engagement collegate all’impiego di tecnologie innovative.
"Sono 1 milione e 653 mila le piccole e medie imprese italiane non assicurate; le stesse PMI che oggi compongono più del 99% del tessuto socioeconomico del Paese". Inizia così il ragionamento di Sauro Mostarda, CEO di Lokky, all'interno di un recente white paper da lui stesso elaborato e che abbiamo voluto approfondire meglio per capire come sta evolvendo la cultura del rischio nel tessuto imprenditoriale italiano, anche in vista della prossima edizione del Global Risk Forum, prevista il 14 e 15 giugno 2023 presso l'Allianz MiCo - Milano Convention Centre nel corso del Business Leaders Summit, la grande manifestazione organizzata da Business International - Fiera Milano e dedicata al mondo dei C-level. "Secondo il recente studio “Next Level for Insurance – SME Segment”, realizzato da CRIF, IIA e Nomisma - prosegue il manager nel suo paper -, quasi il 40% delle PMI italiane è attualmente senza copertura assicurativa. Stiamo parlando di 1 azienda su 3. Un dato poco confortante se rapportato all’attuale scenario macroeconomico molto incerto. Sebbene la cultura assicurativa delle PMI italiane stia aumentando negli ultimi anni, tanto che il 32% delle PMI italiane ha aumentato la propensione all’acquisto di polizze dopo l’emergenza sanitaria, la spesa annua (€14.000) per le coperture rimane però significativamente più bassa della media internazionale (€22.600) e sottostimare questa situazione potrebbe avere un impatto sulla redditività e la business continuity delle imprese".
LA DIMENSIONE INFLUENZA LE SCELTEParallelamente alla bassa percezione dei rischi, però, anche il fattore “dimensione aziendale” incide sulla propensione a stipulare una copertura assicurativa. "I dati - prosegue Mostarda nella sua analisi - dimostrano che le imprese di maggiore dimensione (con più di 200 dipendenti) tendono più frequentemente a sottoscrivere polizze rispetto alle organizzazioni più piccole, con meno di 50 persone. Più del 14% delle PMI sceglie, infatti, di non assicurarsi, anche per motivi economici. Secondo un’indagine sulle imprese industriali e dei servizi (INVIND) condotta da Bankitalia, uno dei principali motivi per la mancata assicurazione è la percezione dei premi elevati rispetto al danno atteso (56%): per il 38% delle PMI Italiane il costo è il secondo aspetto più importante nella scelta della polizza". Complice di questa situazione, secondo il manager, è l’assenza di una cultura assicurativa, la mancanza di informazioni esaustive sui prodotti assicurativi e la poca fiducia nei confronti delle compagnie. "Il 38% degli intervistati - evidenzia il CEO di Lokky - sostiene di non conoscere adeguatamente le assicurazioni, le tipologie di polizze e gli strumenti digitali. E questo è sicuramente un limite, soprattutto a fronte dei profondi cambiamenti che ha registrato il mercato italiano negli ultimi anni".
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Si apre una nuova fase nell'attuazione dell'Agenda Digitale dell'Italia. Il PNRR mette a disposizione risorse mai viste per la digitalizzazione del Paese e della sua PA: complessivamente 48 miliardi di euro, il 37% di tutte le risorse europee per il digitale inserite nel Next Generation EU. Una grande disponibilità, finora ben gestita: l’Italia è infatti il Paese più avanti in Europa nella realizzazione degli interventi previsti nel PNRR per la trasformazione digitale, avendo già completato il 17% di milestone e target dedicati (contro il 10% di Spagna e Francia e lo zero di 15 Paesi tra cui la Germania).
Un dato, quest'ultimo, che ha portato anche il Digital Economy and Society Index (DESI) a fotografare qualche primo segnale positivo: nel 2022 l’Italia è salita di 2 posizioni nel ranking europeo di digitalizzazione anche se, complessivamente, resta nella parte bassa della classifica. Siamo infatti al 18esimo posto su 27 Stati membri, con importanti gap rispetto ad altri Paesi, in particolare sulle competenze digitali e i servizi pubblici digitali. Il Paese comincia finalmente a concretizzare un modello “Government as a Platform” di sviluppo ed erogazione di servizi pubblici digitali, in cui la PA diventa una piattaforma di innovazione. Ora è però necessario portare a termine nei tempi previsti gli interventi di digitalizzazione del PNRR, accelerando gli ambiti più critici. Aspetti essenziali, per la crescita economica e lo sviluppo del nostro Paese, su cui abbiamo voluto concentrarci attraverso l'analisi approfondita del recente Osservatorio Agenda Digitale realizzato dalla School of Management del Politecnico di Milano. Una sintesi commentata del report che vi proponiamo di seguito, anche in vista della prossima edizione del Business Leaders Summit, la grande manifestazione dedicata ai migliori C-Level dell'impresa contemporanea, organizzata come ogni anno da Business International - Fiera Milano e prevista all'interno degli spazi dell'Allianz MiCo - Milano Convention Centre, il prossimo 14 e 15 giugno 2023.
“Per l’Italia digitale, questa è la più importante chiamata della storia moderna: dobbiamo rispondere in modo rapido, compatto e ordinato – afferma Alessandro Perego, Direttore Scientifico degli Osservatori Digital Innovation, in quello che sembra un vero e proprio appello accademico alle istituzioni -. Ora è necessario tradurre in realtà le ambizioni del PNRR, portando a termine nei tempi previsti gli interventi di digitalizzazione e accelerando sugli ambiti più critici, come lo sviluppo di competenze digitali tra la popolazione. Dobbiamo dedicare i prossimi mesi a raccordare visioni, risorse e sforzi che, se non ben allineati, rischiano di far perdere tempo ed energie cruciali”.
Il PNRR, infatti, come detto, dedica al digitale un’intera missione da 40 miliardi di euro, a cui si sommano le iniziative di digitalizzazione presenti nelle altre sei missioni, per un totale di 48 miliardi di risorse complessive. Per comprenderne la dimensione, l’Italia prevede di spendere il 37% di tutte le risorse europee dedicate alla trasformazione digitale nell’ambito del Next Generation EU, molto più di altri (18 spenderanno meno di 2 miliardi di euro, la Spagna 20, la Germania 13 e la Francia 8). Al 16 dicembre 2022, 30 delle 173 milestone e target previsti per l’Agenda Digitale sono stati realizzati. Tanto che l’Italia oggi, con il 17% di milestone e target completati, è il Paese più avanti in Europa nella realizzazione della trasformazione digitale prevista nel PNRR. Ovviamente, la Pubblica Amministrazione (PA) riveste un ruolo di primo piano nell’attuazione del PNRR, con almeno il 60% delle risorse destinate a enti pubblici e tutte le risorse gestite e rendicontate da PA. Per la trasformazione digitale dell’apparato pubblico gli obiettivi sono molto sfidanti: sono ben 13 le milestone e 27 i target da realizzare nel 2023, con intenti particolarmente rilevanti sul fronte del procurement, in cui si prevede la completa digitalizzazione di tutto il ciclo di vita dei contratti pubblici e target importanti sui tempi di aggiudicazione delle gare pubbliche, realizzazione e pagamenti. “Il PNRR mette a disposizione risorse senza precedenti per la trasformazione digitale: la sua rilevanza impone un’attenta gestione del momento – ha commentato Luca Gastaldi, Direttore dell’Osservatorio Agenda Digitale e Membro della Segreteria tecnica per l’attuazione del PNRR presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri -. È importante non fermarsi e raccordare le risorse del PNRR a quella degli altri strumenti disponibili per sostenere la trasformazione digitale del Paese (ad esempio Horizon Europe). Bisogna inoltre assicurarsi che i quasi 10 miliardi di euro dedicati alla trasformazione digitale della PA siano spesi in modo efficace ed efficiente, monitorandone l’impiego nel tempo”.
In ogni caso, guardando al lavoro realizzato fin qui dal nostro Paese, è chiaro come i primi risultati si possano già vedere. Nell’edizione 2022 del Digital Economy and Society Index (DESI), infatti, l’Italia sale di due posizioni, ma continua ad attestarsi nella parte bassa del ranking, al 18esimo posto su 27 Stati membri, ancora lontano da Paesi simili, come Spagna, Germania e Francia. Nel dettaglio, l’Italia è 25esima per diffusione di competenze digitali, stabile rispetto allo scorso anno; settima per connettività, guadagnando 16 posizioni rispetto alla precedente rilevazione; ottava per digitalizzazione delle imprese, guadagnando due posizioni; 19esima per digitalizzazione della PA, perdendo una posizione.
Per superare i limiti di completezza degli indicatori e il parziale orientamento al policy-making del DESI, l’Osservatorio ha elaborato i Digital Maturity Indexes (DMI). Il framework di maturità digitale, composto da 109 indicatori, analizza il livello di digitalizzazione con maggiore completezza e precisione, mostrando comunque una performance del Paese sotto la media europea. Nei DMI siamo 22esimi su 27 Paesi europei per sforzi compiuti nell’attuazione dell’Agenda Digitale (fattori abilitanti) e 20esimi per risultati ottenuti, a segnalare la necessaria cautela nel leggere i risultati del DESI troppo positivamente. Emergono, in ogni caso, ottimi risultati nella connettività e nell’integrazione delle tecnologie digitali, dovuti a un set ristretto di indicatori (copertura a 5G, diffusione del cloud, fatturazione elettronica), e si registra un progressivo miglioramento nell’utilizzo di internet da parte dei cittadini. Si riscontra, tuttavia, una sostanziale stasi sulla digitalizzazione dei servizi pubblici su cui evidentemente c'è ancora bisogno di lavorare. Proseguendo su questa linea, inoltre, l’Osservatorio Agenda Digitale ha calcolato anche un DESI regionale, da cui emerge il divario tra regioni del Mezzogiorno e del Centro - Nord. Le dimensioni su cui l’Italia è più in difficoltà nel DESI – capitale umano e servizi pubblici digitali – sono anche quelle con i maggiori divari regionali, dato significativo per comprendere come solo riducendo le disuguaglianze interne l’Italia riuscirà a colmare il gap con gli altri Paesi. Confrontando, infatti, le 21 Regioni e Province Autonome italiane con un gruppo di Regioni europee "gemelle", emerge come anche i territori più avanzati del nostro Paese non siano veri digital champion in Europa. Tutte le Regioni europee simili alle nostre fanno meglio rispetto all’utilizzo complessivo di internet e vincono il confronto su 8 dei 9 indicatori considerati, con l’eccezione dell’accesso alla banda larga. E sono proprio le Regioni del Nord e del Centro (più in alto nel DESI regionale) a mostrare un ritardo maggiore rispetto alle Regioni ad esse simili nel resto d’Europa.
Proprio per cercare di ridurre le distanze pocanzi evidenziate, tanto dal DESI, quanto dai DMI, da diversi anni, il nostro Paese sta cercando di adottare un modello per lo sviluppo e l’erogazione di servizi pubblici digitali “Government as a Platform” con dataset e componenti condivisi; piattaforme per accentrare l’offerta di servizi pubblici; modelli di interoperabilità applicativa basati su API e standard aperti; soluzioni cloud per garantire scalabilità, controllo della sicurezza ed efficienza. Come detto sopra, in questo senso nel 2022 si sono registrati importanti risultati, rilevati anche dagli indici di digitalizzazione europei. Per quanto riguarda i dataset, per esempio, l’ANPR è ormai una soluzione consolidata, con tutti i Comuni italiani subentrati; il Fascicolo Sanitario Elettronico (seppur attivo dal 2019), invece, non è ancora completamente operativo e interoperabile in tutte le Regioni, ma sono accessibili oltre 417 milioni di referti digitalizzati; quasi 60.000 open data popolano il portale dati.gov.it, che oggi rappresenta effettivamente un’eccellenza a livello europeo. Proseguendo nell'analisi e dando uno sguardo più approfondito proprio alle piattaforme virtuali, pagoPA vede oltre 19.000 PA aderenti, oltre 400 prestatori di servizi di pagamento coinvolti nella piattaforma e circa 650 milioni di transazioni effettuate, per un valore di oltre 126 miliardi di euro; SPID è nelle mani di un maggiorenne su due, con oltre un miliardo di accessi nel 2022, mentre la CIE è stata usata 21 milioni di volte per accedere a servizi digitali; l’App IO nel 2022 è stata scaricata da oltre 32 milioni di italiani e le oltre 12.000 PA presenti nell’App offrono più di 170.000 servizi. Infine, va tenuto in considerazione anche il fatto che negli ultimi mesi sia stato finalizzato un Proof of Concept della Piattaforma Notifiche Digitali, che permetterà l’invio di notifiche con valore legale. Parlando di interoperabilità, poi, l'Osservatorio sottolinea come la Piattaforma Digitale Nazionale Dati (PDND), attiva dal 21 ottobre 2022, abiliterà lo scambio automatico di dati tra PA e favorirà l’interoperabilità dei sistemi informativi e delle basi dati pubbliche, mentre il Progetto Mobility as a Service for Italy (MaaS) prevede di dedicare 57 milioni di euro del PNRR all’integrazione e all’interoperabilità di servizi di trasporto pubblico e privato. Mentre per l’infrastruttura cloud, che rappresenta naturalmente un asset imprescindibile alla circolazione fluida dei dati e a una loro archiviazione e categorizzazione aperta e fruibile al pubblico, l'Osservatorio Agenda Digitale evidenzia come sia stato costruito il Polo Strategico Nazionale (PSN) che ospiterà i dati e i servizi critici e strategici delle PA italiane e conferma, pertanto, l'inizio della migrazione al cloud di dati e servizi pubblici, avvertendo però che siamo ancora lontani dalla dismissione e razionalizzazione degli oltre 11.000 data center attualmente presenti nelle PA italiane. Un aspetto, questo, estremamente critico e delicato, in termini di risoluzione operativa, poichè impatti concretamente e direttamente su costi vivi e operativi, non rendendo possibile una sua attuazione in tempi brevi, soprattutto per mancanza evidente di risorse e competenze necessarie alla finalizzazione della dismissione stessa dei componenti hardware che oggi sorreggono tutta l'architettura digitale pubblica del nostro territorio.
PER DIGITALIZZARE IL PAESE BISOGNA RIVOLUZIONARE IL SUO PROCUREMENT
La PA italiana nel 2021 ha comprato lavori, servizi e forniture per circa 200 miliardi di euro, un valore equivalente alle risorse disponibili grazie al PNRR. Il nuovo Codice dei contratti pubblici, che entrerà in vigore dal 1° aprile 2023, prevede un’accelerazione nella gestione degli appalti pubblici tramite piattaforme digitali interoperabili e qualificate. Il mercato di tali piattaforme, nel mondo pubblico, vale 28 milioni di euro l’anno, ma per renderlo davvero efficace ed efficiente è necessario un cambio di marcia, sia a livello culturale, sia a livello procedurale, realizzando un processo di approvvigionamento completamente rinnovato, digitalizzato e che permetta di superare i problemi del mercato di soluzioni digitali alla PA italiana. La pubblica amministrazione, infatti, nel nostro Paese acquista da aziende private sostanzialmente tutte le sue soluzioni digitali, per un ammontare di costi che nel 2021 hanno toccato i 5,7 miliardi di euro, ma il 67% della spesa pubblica in servizi digitali è concentrato nelle mani dei primi 50 fornitori e il 31% nelle mani dei primi 5 e oggi sono necessari mediamente 4 mesi e mezzo per assegnare una gara pubblica per soluzioni digital. Questo, ovviamente, propone un problema di tempistiche e di erogazione che non consente processi di finalizzazione delle operazioni semplici e veloci, come invece le PA avrebbero bisogno. “Se rendessimo più efficaci ed efficienti i processi di procurement pubblico potremmo realizzare vere riforme strutturali, con impatti dirompenti sull’economia dell’intero Paese – ha sottolineato Mariano Corso, Responsabile Scientifico dell’Osservatorio Agenda Digitale -. Dobbiamo prima di tutto completare la riforma del Codice dei contratti pubblici, accelerando la loro digitalizzazione. Inoltre, è necessario ripensare ai meccanismi di progettazione e risposta delle gare pubbliche, troppo spesso disegnate con la preoccupazione di prevenire ricorsi e contenziosi e portare competenze di approvvigionamento all’interno di tutte le PA”.
Risulta chiaro, quindi, che tra le raccomandazioni dell’Osservatorio, perché l’Italia riesca a rispondere alla chiamata digitale, c’è la necessità di definire una governance che preveda un forte presidio e coordinamento sui temi dell’Agenda Digitale. Senza una linea guida autoritaria che scandisca i tempi, che devono essere rapidi per evitare di perdere l'opportunità offerta dall'Europa e dal PNRR, non si riuscirà a raggiungere gli obiettivi che, finora, hanno seguito una roadmap stringente, richiedendo anche un impegno non indifferente. “Dalla banda larga alle competenze digitali, dagli interventi di digitalizzazione del PNRR a quelli a valere sui fondi strutturali, gli interventi da mettere a terra sono molteplici e complessi. La loro implementazione richiede inoltre una collaborazione, in pochissimo tempo, da parte di una pluralità di attori pubblici e privati – ha analizzato Giuliano Noci, Responsabile Scientifico dell’Osservatorio Agenda Digitale -. Serve una regia forte che tenga alta l’attenzione di tutti a ‘giocare la propria parte’ in modo articolato e produttivo”. Anche perchè le PA locali (Regioni, Province, Comuni, Città metropolitane, ASL e aziende ospedaliere) si troveranno a gestire oltre 66 miliardi di euro del PNRR e molte delle risorse complementari verranno amministrate direttamente da Regioni e Province Autonome con il rischio evidente, quindi, di una frammentazione di scelte, decisioni, processi e modelli tipica dell'Italia e che da sempre rappresenta uno dei grandi trigger dei gap tra nord e sud del Paese come anche tra città metropolitane e piccoli borghi. Secondo gli esperti accademici, quindi, si rende necessario affiancare e supportare questi enti locali nell’implementazione dei loro interventi affichè sia possibile creare un'omogeneità nell'applicazione dei processi e dei modelli operativi, in modo da avere un'uniformità nella trasformazione digitale del territorio a beneficio dei cittadini e delle aziende. “È fondamentale fare gioco di squadra – ha concluso Michele Benedetti, Direttore dell’Osservatorio Agenda Digitale - semplificando e razionalizzando le interazioni tra titolari e utilizzatori dei fondi, cercando di portare a sistema buone pratiche nell’implementazione e favorendo le aggregazioni tra enti locali. Se non lavoreremo su questi aspetti, i divari di digitalizzazione tra i territori saranno destinati ad aumentare”.