Che tu stia cercando di ottenere un leggero aumento di stipendio per il tuo team o di convincere i tuoi stakeholder che i dipendenti hanno bisogno di una pausa pranzo di 5 minuti più lunga, avrai più successo se affronti le trattative come un vero diplomatico in un conflitto internazionale.
L’implementazione di capacità di negoziazione come analisi, comunicazione ed empatia può essere naturale per manager e leader affermati. "Ma nessuno nasce imparato". Il coaching ad esempio è un ottimo alleato sia per muovere i primi passi sia per consolidare le competenze già acquisite nella negoziazione.
Un tema che abbiamo voluto approfondire meglio in questo articolo a cura di Speexx, anche in vista della prossima edizione del HR Business Summit, l'evento dedicato al mondo delle risorse umane che si terrà il prossimo 27 e 28 novembre 2023 presso lo SPAZIO FIELD di Roma, all'interno dell'edizione autunnale del Business Leaders Summit, la grande manifestazione dedicata ai migliori C-level dell'impresa contemporanea, organizzata da Business International, la knowledge unit di Fiera Milano.
Il mondo del business è intriso di dinamiche complesse e sfide continue. In questo contesto, la negoziazione emerge come uno strumento imprescindibile per attraversare con successo queste “acque turbolente”, portando con sé benefici tangibili per le aziende in termini di risparmio e profitto. Ma perché la negoziazione è così cruciale nel mondo degli affari? E quali sono le prove concrete di questo legame diretto tra capacità negoziali e successo aziendale?
Il profitto, d’altro canto, è strettamente legato alla capacità di vendere prodotti o servizi ad un prezzo ottimale. Qui, la negoziazione gioca un ruolo determinante nell’interazione con clienti, partner e fornitori, assicurando che l’azienda ottenga il massimo valore possibile dai suoi prodotti e servizi.
Uno studio condotto dal Center for Economics and Business Research, un’istituzione rispettata e riconosciuta a livello internazionale, ha fornito dati illuminanti in questo contesto. Secondo questa ricerca, il Regno Unito ha subito una perdita di circa 9 milioni di sterline a causa di negoziazioni inadeguate. Questo dato, sorprendente in sé, sottolinea le potenziali ripercussioni economiche di una cattiva pratica negoziale.
Ma la ricerca non si ferma qui. Lo studio ha anche evidenziato che un’azienda media potrebbe effettivamente aumentare i propri profitti di un 7% semplicemente migliorando le sue capacità di negoziazione. Questo dato, tradotto in cifre assolute, può rappresentare migliaia, se non milioni, di euro di profitto aggiuntivo per le grandi aziende.
Il ruolo cruciale della formazione nella negoziazione
Questi dati, ovviamente, pongono una domanda essenziale: come possono le aziende migliorare le loro capacità di negoziazione? La risposta risiede nella formazione continua e mirata. Investire in programmi di formazione dedicati, seminari e workshop può aiutare i dipendenti a sviluppare e affinare le loro competenze negoziali.
La negoziazione nell’era digitale
Con l’avvento della digitalizzazione e della globalizzazione, la negoziazione assume una nuova dimensione. La capacità di negoziare efficacemente in un contesto online, ad esempio, può aprire nuove opportunità di mercato e ampliare la portata dell’azienda. Allo stesso tempo, la crescente interconnessione dei mercati globali significa che le aziende devono essere pronte a negoziare con partner da diverse culture e background.
1. Analizzare e scomporre il problema
Il primo step essenziale in qualsiasi processo negoziale è la comprensione chiara dell’oggetto della trattativa. Ciò significa non solo avere una visione generale, ma anche essere in grado di scomporre il problema in parti più piccole e gestibili. Questo non solo permette una maggiore chiarezza nel processo, ma offre anche l’opportunità di identificare possibili aree di compromesso o soluzioni alternative.
2. Preparazione: la chiave del successo
Una volta compreso il problema, è essenziale prepararsi adeguatamente per le trattative. Questo passo va ben oltre la semplice raccolta di dati o cifre. Significa anche cercare di comprendere il punto di vista della controparte, anticipando possibili obiezioni o preoccupazioni. Mettendosi nei panni dell’interlocutore, si può sviluppare una strategia più flessibile e adattabile.
3. L’Arte della comunicazione efficace
Molte persone associano la negoziazione alla capacità di parlare bene e persuadere. Tuttavia, uno degli aspetti più cruciali della comunicazione, soprattutto in contesto negoziale, è l’ascolto. Ascoltare attivamente ci permette di comprendere realmente le esigenze, le preoccupazioni e i punti deboli dell’altro. Inoltre, dedicando tempo all’ascolto, si può costruire un rapporto di fiducia con l’interlocutore, facilitando il raggiungimento di un accordo.
4. Avere piani di riserva
E’ fondamentale avere sempre un piano B. Durante una negoziazione, non sempre le cose vanno come previsto. Avere strategie alternative o piani di riserva permette di gestire al meglio la trattativa, anche quando la situazione diventa difficile.
5. Appellarsi ai valori universali
In una negoziazione può risultare cruciale il fatto di appellarsi ai valori “senza tempo” come: coraggio, lealtà, tolleranza, integrità. Questi valori oltre a creare potere, determinano la fiducia, che è alla base di ogni relazione.
La risoluzione dei conflitti e la negoziazione sono così intrecciate da essere quasi sinonimi. Oltre a trattare le controversie negli affari quando sorgono, la negoziazione può aiutare anche nella loro prevenzione. Un leader o un manager orientato alla negoziazione anticiperà i potenziali problemi e creerà situazioni vantaggiose per tutti e che soddisferanno tutti.
Invece di utilizzare mezzi autorevoli per subordinare gli altri, i veri negoziatori possono trovare un modo per creare un ambiente di lavoro positivo. In questo modo, possono evitare una significativa perdita di tempo, risorse e ore di lavoro.
Perché, in fin dei conti, è l’azienda a subire i danni delle incomprensioni individuali.
Il vantaggio in qualche modo più personale dell’utilizzo delle capacità di negoziazione negli affari è il suo potenziale per costruire reputazione e relazioni. I leader che adottano un approccio orientato alla soluzione hanno maggiori probabilità di essere percepiti come degni di fiducia e affidabili.
Queste caratteristiche possono aiutare a costruire una solida presenza autorevole e trasformare i dipendenti in seguaci se combinate con altri tratti di leadership positiva.
Anche i leader stessi possono vivere ad un certo punto della carriera, l’esigenza di negoziare il proprio ruolo di leadership. In tal caso, ecco alcuni consigli da tenere a mente:
Considerare le aspettative stabilite dai predecessori
Quando si negozia un nuovo accordo commerciale, spesso si parte da zero, ma di solito non è così quando si negozia un ruolo di leadership. Gli interlocutori avranno determinate aspettative sul “come si dovrebbe svolgere quel ruolo di leadership, in base a come sono stati abituati dai predecessori. È fondamentale comprendere queste aspettative e adottare una strategia di comunicazione e leadership, che le faccia convergere dalla propria parte.
Valutare il supporto degli stakeholders
Mentre si pianifica la campagna di negoziazione del ruolo, è importante identificare i vari interlocutori coinvolti, per determinare chi ci sostiene e chi bisognerà portare a bordo. Questo sostegno interverrà in maniera cruciale, sulla capacità di perseguire i propri obiettivi e permette di avere degli alleati, evitando l’isolamento.
Negoziare costantemente il proprio ruolo
Sarebbe un errore considerare la negoziazione del ruolo di leadership come una questione “una tantum” che può essere concluso in un mese o due dopo l’insediamento. In realtà, i migliori leader negoziano continuamente il proprio ruolo, lavorando per comprendere e adeguare le aspettative degli altri, mentre propongono nuove iniziative e obiettivi. Proprio come i diplomatici curano e coltivano le loro relazioni con altre nazioni, i leader devono sforzarsi nel rimanere allineati con i propri stakeholder, sia interni che esterni all’organizzazione.
Prepararsi ai cambiamenti
Spesso accade che le organizzazioni concedano ai leader di successo maggiore autonomia col passare del tempo. Ma se le decisioni che prendi si rivelano errate, non sorprenderti se i tuoi superiori pongano nuove limitazioni al proprio ruolo. Meglio accettare questi cambiamenti e continuare a negoziare in un secondo momento, il proprio livello di libertà e autonomia.
Nel panorama aziendale odierno, la crescita e la retention dei dipendenti sono alla base del successo e il tema della valorizzazione delle competenze ha un ruolo centrale. Tuttavia, molte organizzazioni non conoscono il reale potenziale delle proprie risorse e a mancare non sono i dati, quanto la possibilità di analizzarli e utilizzarli.
Un tema questo che, come ServiceNow, abbiamo voluto trattare meglio in questo articolo, anche in vista della nostra partecipazione alla prossima edizione del HR Business Conference, l’evento dedicato al mondo dei direttori delle risorse umane che si svolgerà il 27 e 28 novembre 2023 presso lo SPAZIO FIELD di Roma all’interno del Business Leaders Summit, organizzato da Business International, la knowledge unit di Fiera Milano.
Una delle ragioni per cui manca la visibilità sul potenziale di competenze presente in azienda è legato al fatto che tali informazioni risiedono su sistemi diversi che non dialogano tra loro. Per risolvere questo problema vengono in aiuto piattaforme in grado di integrare le diverse informazioni disponibili nei sistemi presenti in azienda. L'adozione di soluzioni tecnologiche avanzate, in particolare se integrate con l'AI, non solo permette una formazione più efficiente ma consente anche di individuare e anticipare le competenze future necessarie, adattando il percorso formativo alle richieste in evoluzione del mercato del lavoro.
La tecnologia, inclusa l'AI, non dovrebbe sostituire l'aspetto umano della gestione delle HR. Al contrario, dovrebbe agire come un complemento, migliorando l'efficienza e consentendo ai responsabili di concentrarsi sull'aspetto umano.
L'introduzione dell'AI e di altre tecnologie nell'ambito delle risorse umane non solo migliora le performance individuali e collettive, ma consente di creare un ambiente di lavoro più collaborativo, in cui l'innovazione e lo sviluppo individuale sono supportati in modo mirato. Il segreto è utilizzare la tecnologia per favorire un equilibrio tra efficienza operativa e un clima lavorativo positivo.
In un mondo in continua evoluzione e con l'aumento della complessità delle dinamiche del mondo del lavoro e la crescente consapevolezza del benessere del dipendente, le aziende devono rivolgere l'attenzione all'IA per affrontare le sfide e sfruttare le opportunità.
Un campo in cui l'IA ha fatto passi da gigante è la selezione del personale. L'impiego di algoritmi di machine learning ci consente di analizzare in modo rapido e accurato tutte le candidature, identificando i candidati più adatti per un determinato ruolo. Questo non solo riduce i tempi di assunzione, ma contribuisce anche a garantire una maggiore coerenza e obiettività nel processo di selezione.
Una volta assunti, l'IA può continuare a svolgere un ruolo fondamentale nella gestione delle risorse identificando i punti di forza e le aree di sviluppo e consentendo all’azienda di offrire piani di sviluppo personalizzati, migliorando il coinvolgimento e la crescita dei dipendenti e di conseguenza attirando i talenti migliori.
Dai processi di selezione all'ottimizzazione delle competenze dei dipendenti e all'employer branding, l'IA offre una gamma di soluzioni avanzate per migliorare l'efficienza e l'efficacia delle pratiche HR contribuendo alla creazione di ambienti di lavoro migliori e più equi.
Temi questi di grande interesse per il mondo delle risorse umane, che, come Begear, cercheremo di approfondire anche nel corso della nostra partecipazione alla prossima edizione dell'HR Business Conference, prevista il 27 e 28 novembre 2023 presso SPAZIO FIELD a Roma, all'interno della kermesse autunnale del Business Leaders Summit.
“Oggi il mercato del lavoro è indubbiamente cambiato rispetto a solo pochi anni fa. Le aspettative dei potenziali candidati sono diverse e maggiori rispetto al passato, sia da un punto di vista strettamente economico che sul versante di un complessivo e migliore equilibrio tra vita personale e professionale”. Marco Nicodemi, Chief HR Officer di Carpisa, sottolinea così il meccanismo di trasformazione in atto nel mondo del business che sta portando numerose aziende a ripensare i propri modelli di recruitment per attirare l’attenzione dei migliori talenti sul mercato. Un punto di vista che abbiamo avuto l'opportunità di approfondire, in occasione della presentazione della ricerca dal titolo “L’evoluzione dell’Employer Branding per fronteggiare la Talent Shortage”, realizzata da Business International – Fiera Milano, in collaborazione con Indeed Italia, e presentata nel corso dell'ultima edizione del Business Leaders Summit, tenutosi a Milano lo scorso 14 e 15 giugno 2023. “Alcuni fattori – prosegue il manager – incidono più che in passato nella scelta dell’azienda da parte dei candidati: la possibilità di lavorare da remoto, in tutto o in parte (c.d.: lavoro “ibrido”), la distanza tra luogo di lavoro e residenza, la gestione del tempo e, conseguentemente, la possibilità di dedicarsi anche agli interessi personali o alle esigenze di cura verso figli piccoli e genitori anziani, sono tutti elementi importanti nella valutazione di un’opportunità professionale da parte di un candidato”. In questo contesto, ovviamente però, anche le aspettative delle aziende si sono evolute e modificate. “Tra i requisiti attesi dalle imprese – spiega Nicodemi – oggi spiccano, ad esempio, quelle competenze digitali non particolarmente diffuse né tra i giovani italiani attivi nella ricerca di prima occupazione, né tra i professional di maggiore seniority già presenti sul mercato”. Un aspetto, questo, evidenziato da tempo ormai nell’ambito del recruiting nel nostro Paese, che sembra evidenziare come si faccia ancora fatica a cambiare le dinamiche della formazione e, se vogliamo, della rivoluzione culturale che la digital transformation, in modo particolare nell’era post-covid, sta richiedendo in maniera sempre più frenetica e incessante. “La combinazione di queste variabili – continua nella sua analisi il direttore delle risorse umane – ha reso più difficile la possibilità di un più rapido ed efficace incontro tra domanda e offerta, nonostante la disponibilità di strumenti di recruitment ben più veloci e immediati rispetto al passato”. La questione, quindi, pare non sia più essere generata dalla digitalizzazione delle operation da parte delle imprese, ormai, ma verta più su un discorso organizzativo e di evoluzione strutturale dei modelli attualmente in essere. “Per poter progredire in questo senso – avverte Nicodemi –, è più che mai indispensabile per le aziende un investimento organizzativo che favorisca l’adozione di modelli di gestione basati su obiettivi e non su gerarchie verticali di tipo dispositivo. E’ necessario investire su percorsi formativi orientati allo sviluppo di competenze manageriali. E’ importante costruire contesti aperti e trasparenti nei quali le persone si sentano effettivamente parte del progetto aziendale”. Una roadmap chiara, quindi, che Carpisa ha intrapreso già da qualche tempo. “Noi, in azienda – aggiunge il manager – stiamo cercando di raffinare il processo di recruitment, che - per alcune posizioni - è sempre attivo, proprio per costruire attenzione e notorietà intorno al Brand. Stiamo costruendo percorsi di sviluppo manageriale e sistemi di remunerazione per obiettivi altamente incentivanti”. Un set di attività, per così dire, con un unico grande obiettivo. “Facciamo tutto quanto possa aiutarci – racconta Nicodemi – ad uscire dalla logica di un processo di recruitment distante dal resto della nostra impresa, rivedendo i fondamentali del nostro contesto organizzativo per riproporli anche come strumento di attraction verso i nuovi e potenziali candidati”. Una nuova generazione di talenti da conquistare e con cui confrontarsi per raggiungere un risultato comune su cui spesso le organizzazioni che operano nella nostra penisola fanno fatica a puntare per svariati motivi, ma che invece risulta fondamentale nello sviluppo di un rapporto tra dipendente e datore di lavoro che sempre di più deve guardare alla sostenibilità tanto del business quanto della soddisfazione e della vita privata del professionista. “Le aziende italiane sono “nane” e, spesso, a conduzione familiare – commenta Nicodemi –. Investono poco nell’organizzazione e nei sistemi di delega. Quelle che hanno concrete opportunità di intercettare i migliori talenti sono le aziende orientate a crescere, quelle che rischiano sul potenziale dei giovani e i cui titolari sono disponibili ad organizzare contesti trasparenti di crescita ed evoluzione personale, nei quali l’individuo non si senta un accessorio del progetto, ma parte del progetto stesso”. Un modello, questo, per cui però servono nuove competenze da sviluppare, tanto per le aziende, quanto per i propri manager. “Alle imprese di qualunque tipo e in qualunque settore – incalza Nicodemi –, oggi, serve chiarezza di intenti e coerenza sia dell’azienda che di coloro che la rappresentano. Le aziende hanno bisogno di un clima organizzativo e di strumenti a supporto dell’ibridazione dei ruoli organizzativi, attraverso soluzioni di piattaforma che consentano la gestione di progetti da parte di team i cui componenti non vivono quotidianamente nello stesso luogo di lavoro”. Tutte skill nuove, e da costruire, che richiedono un approccio diverso e una visione inedita dell’azienda stessa. “A mio modo di vedere – spiega il manager –, inoltre, è più che mai importante essere chiari rispetto agli obiettivi che l’azienda persegue e agli obiettivi di ruolo dei manager, oltre che ai meccanismi di valutazione in base ai quali si avrà l’opportunità di crescere in azienda per i professionisti. Lunghi processi di scelta non sono più compatibili con un mercato del lavoro fortemente competitivo e, pertanto, è ben meglio avere le idee chiare fin dal principio anziché intraprendere processi di reclutamento durante i quali non siano immediatamente disponibili le risposte alle numerose domande che ciascun candidato, oggi più che in passato, ci porrà sull’azienda, sul proprio ruolo e su come il proprio ruolo si integrerà nell’organizzazione della nostra realtà”. Domande a cui, spesso, ancora oggi le aziende fanno fatica a rispondere in maniera efficace. “Partiamo dal presupposto che tutte le persone che incontriamo desiderano realizzarsi – chiosa il manager – e se non ci organizziamo affinché questo si possa concretizzare, avremo già perso in partenza”.
"Il talent shortage è causato da diversi fattori: da una parte, è innegabile ormai come oggi esista una difficoltà per il mondo universitario e formativo nell’adeguarsi a continui e sempre più veloci mutamenti dello skill mix richiesto dalle aziende (sempre più ibridato e multidisciplinare);, dall’altra, è altrettanto evidente come ci sia un diverso approccio al lavoro e alle imprese da parte dei candidati (più) validi che, avendo gran mercato, valutano con maggior attenzione, rispetto al passato, i valori, la mission e le modalità di lavoro delle organizzazioni con cui entrano in contatto”. E’ questa la fotografia che propone Marco Russomando, Chief Human Resources & Organization Officer di Illimity, parlando di un fenomeno come quello della carenza di talenti, soprattutto in ambito Stem, che sta influenzando il mercato del lavoro a livello globale. Un punto di vista che abbiamo avuto l'opportunità di approfondire, in occasione della presentazione della ricerca dal titolo “L’evoluzione dell’Employer Branding per fronteggiare la Talent Shortage”, realizzata da Business International – Fiera Milano, in collaborazione con Indeed Italia, e presentata nel corso dell'ultima edizione del Business Leaders Summit, tenutosi a Milano lo scorso 14 e 15 giugno 2023. “Al contempo, inoltre – prosegue il manager –, le nuove generazioni di professionisti hanno minore affezione (o se vogliamo un diverso legame) nei confronti del proprio datore di lavoro”.
Un aspetto empatico, questo, che riflette un po’ la riduzione di quell'“attaccamento alla maglia”, come si dice in gergo sportivo, che rende più delicato il rapporto tra azienda e talento e propone un rischio di ritorno sull’investimento nelle risorse che rende sempre più complesse le scelte da mettere in campo per le organizzazioni. “In questo modo, però – sottolinea Russomando –, si crea il paradosso dell’investimento a termine, ovvero la necessità per le aziende di puntare molto sulla formazione e lo sviluppo dei talenti che poi – spesso – scelgono, magari dopo 3 o 5 anni, di intraprendere altri percorsi lavorativi, perché vedono le aziende come tappe (funzionali se non strumentali) al loro percorso e, dunque, per decidere di “restare o investire” a medio-lungo termine, queste ultime devono essere in grado di offrire loro, periodicamente, nuove opportunità di apprendimento e d’impatto organizzativo”. Una vera e propria sfida da non sottovalutare, questa, anche perché impone alle imprese di mettersi in gioco a 360 gradi, senza filtri e soprattutto con la voglia di trasformarsi profondamente, tanto nei processi, quanto negli approcci e, soprattutto, nella cultura di un nuovo modo sia di fare business, sia di lavorare.
Una modalità, tutta da scoprire, che richiede l’attivazione di nuove strategie per rimanere competitivi sotto il profilo della talent attraction e della talent retention. “Le strategie per affrontare il fenomeno della talent shortage – suggerisce il manager –, idealmente, dovrebbero tenere in considerazione tre asset fondamentali. In primis, le aziende dovrebbero adottare una logica o modello identitario ed ecosistemico che consenta di definire e comunicare cosa si è e cosa si offre in ottica di People Value Proposition. Solo così si può dare vita ai presupposti per un rapporto di followership evoluta e di fellowership”. Due concetti di assonanza valoriale (oltre che linguistica) e di prospettiva, orientati alla cura e alla guida o mentorship, ma anche a una libertà responsabile che offra l’opportunità di generare un terreno fertile dove supportare l’espressione del potenziale individuale. “In secondo luogo, poi – prosegue Russomando –, è fondamentale plasmare tutti i processi sulla base della PVP, con un’attenzione particolare alle performance e al training. In terza istanza, infine, l’aspetto più importante da valorizzare rimane quello di ascoltare costantemente le proprie risorse, adottando le micro e le macro correzioni che favoriscono un ambiente di lavoro sano, sostenibile e generativo”. Tre fattori essenziali, questi, a cui si aggiunge poi un ultimo elemento da non sottovalutare se si vuole generare quell’affezione all’impresa che consenta un percorso condiviso di lungo periodo tra datore di lavoro e talent. “In questo contesto di generazione di valore e di valorizzazione delle nuove generazioni di professionisti e non solo – evidenzia il manager –, sicuramente, l’Employer Branding, se genuino, ovvero se improntato al racconto di chi si è e non di cosa si vorrebbe o dovrebbe essere, è un volano potentissimo per la talent acquisition. Per renderlo efficace, però, è necessario puntare sempre di più sul dar voce alle proprie persone, mettendo al centro il loro “sentire”, il loro “immaginare e innovare”, e investendo sulla narrazione della propria storia”. Già, perché ogni organizzazione ha un passato da descrivere e spiegare.
Un percorso di successi e sperimentazioni che ha portato all’acquisizione di nuove competenze e risultati. “Se guardiamo oggi – continua Russomando – alle competenze più efficaci che le aziende devono fare proprie attraverso l’ingresso di nuovi talenti, in questo contesto digitale, fluido e incerto, possiamo notare come empatia, agilità di pensiero e di azione, apertura alle diversità, lungimiranza, pazienza, autoregolazione emotiva e antifragilità (che va oltre la “semplice” resilienza, perché è la caratteristica di chi impara, o meglio, evolve da situazioni avverse) siano le skill più importanti su cui concentrare la propria ricerca e la propria attenzione. Per attrarre le risorse giuste in questo senso, però, le organizzazioni dovranno saper comunicare e trasmettere la propria identità e il proprio impegno verso le persone, riuscendo a essere consistenti ed esemplari nel dire quel che si pensa e – soprattutto – fare quel che si dice, anche perchè ormai il fact checking è un’attività sempre più diffusa a tutti i livelli e questo, dal punto di vista dei professionisti, screma alla base, e quasi automaticamente, le realtà meritevoli da quelle che non lo sono”.
Carenza di talenti, mancanza di competenze IT, difficoltà nel trovare professionisti con consolidate skill digitali e decisa criticità nell’acquisizione di lavoratori dotati di competenze trasversali, come il time management, l’empatia o la collaborazione. In un mondo sempre più digitalizzato e nel quale il bilanciamento tra vita privata e vita lavorativa e le priorità delle persone sono in continuo mutamento, il paradigma lavorativo sta conoscendo un’evoluzione che in pochi si aspettavano o avevano previsto.
Alcuni attribuiscono la causa di tutto questo alla pandemia da Covid-19, che ha reso più complessi i processi internazionali e la gestione della sfera personale. Altri, invece, sostengono che l’aumento dello smart working, inteso esclusivamente come telelavoro, unito alla crisi economica, alle nuove esigenze personali e professionali e a una lentezza nell’adattarsi alle nuove richieste dei lavoratori da parte delle aziende abbia impattato negativamente sulle dinamiche dei flussi occupazionali.
Di fatto, però, il problema diventa sempre più concreto e attuale: il fenomeno della talent shortage, ovvero la carenza di talenti, ormai, sta coinvolgendo tutti i tipi di impresa in qualunque settore. A tal punto che, secondo la ricerca realizzata dal World Economic Forum “The Future of work 2023”, due su cinque (41%) degli economisti intervistati si aspettano che i mercati del lavoro rimarranno “contratti” nelle economie avanzate nel corso dell’anno, mentre il 45% degli intervistati ritiene che sia “abbastanza” o “estremamente probabile” che la carenza di talenti eserciti un freno all’attività imprenditoriale nel prossimo futuro. Gli intervistati, inoltre, hanno espresso fiducia nello sviluppo della propria forza lavoro esistente, tuttavia, hanno dimostrato meno ottimismo per quanto riguarda le prospettive di disponibilità di talenti necessari alla crescita aziendale nei prossimi cinque anni. Di conseguenza, le organizzazioni hanno identificato la carenza di competenze e l’incapacità nell’attrarre talenti come le principali barriere per la trasformazione della propria impresa, e del proprio settore di riferimento più in generale.
Dati, questi, che hanno portato Business International – Fiera Milano, in collaborazione con Indeed Italia, a sviluppare il report dal titolo “L’evoluzione dell’Employer Branding per fronteggiare la Talent Shortage”, al fine di comprendere a fondo quali possono essere le strategie da mettere in campo per poter ridurre uno skill gap sempre più marcato e in grado di diminuire drasticamente la competitività delle organizzazioni nel prossimo futuro. L’analisi, curata da Stefano Faccioli, Head of Organizational Development and Training della Fondazione Policlinico Gemelli di Roma, e condotta tra febbraio e aprile 2023 su un campione di oltre 100 direttori HR attivi in aziende di medie e grandi dimensioni, operanti sul territorio italiano, si propone quindi di indagare quale sia lo stato dell’arte delle priorità da affrontare e delle tattiche da adottare per consentire alle imprese di superare questa sfida da non sottovalutare.
“La talent shortage, oggi – ha commentato Faccioli –, è un fenomeno che subisce l’influenza di molteplici fattori, ma probabilmente il miglior modo per fronteggiarla, da parte delle organizzazioni, è capire che lo scenario del lavoro e le esigenze dei lavoratori sono enormemente cambiati. Questo è un processo irreversibile ormai. Ascoltare questa richiesta di soddisfazione personale e necessità di riequilibrio delle dinamiche tra lavoro e vita privata, diventa così una delle chiavi fondamentali per rispondere in maniera efficace alla situazione”. Un paradigma che, per essere messo in atto, però, ha bisogno di un concreto cambio di approccio da parte delle aziende, ma anche da parte dei manager che le guidano, oltre che un nuovo modello organizzativo e culturale che guidi il mondo del business più in generale verso il superamento di frontiere che fino a qualche tempo fa sembravano invalicabili e che ora risultano essere l’unica via da percorrere per poter rimanere competitivi sui mercati, dall’attenzione alla sostenibilità ambientale alla diversity and inclusion e dall’ampliamento del bacino di recruitment per la talent acquisition alla responsabilità sociale delle attività imprenditoriali. “La competizione per i talenti – ha commentato Ilaria Caccamo, Managing Director di Indeed Italia –, la scarsità di competenze, il cambio di preferenze dei candidati dal dopo pandemia, sono alcuni degli elementi che stanno scatenando una tempesta perfetta in cui si trovano coinvolte le aziende alla ricerca di candidati. Oggi per queste aziende l’employer branding rappresenta sia un’opportunità che una sfida. Spesso si ritiene che l’ambito di questo strumento sia la comunicazione, ma il tassello chiave che ne costruisce le fondamenta è il valore. L’employer branding consente alle aziende di rendere il proprio valore concreto, tangibile e differenziante. Così da attrarre nuovi candidati ma anche influenzare i propri dipendenti. Grazie alle gestione attiva della proprio brand aziendale le aziende riescono ad ascoltare, agire e condividere in modo più mirato ed efficace. Il mondo del lavoro sta cambiando, per il meglio”. Un’attività di sicuro impatto, su cui le aziende italiane – come dimostrano i dati della ricerca – si stanno impegnando con grande dedizione, mostrando come, nonostante le difficoltà e le criticità del momento, ci siano già alcuni esempi d’eccellenza che hanno deciso di muoversi con coraggio per offrire nuove opportunità ai professionisti e al contempo una nuova visione del fare impresa.