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Execution

Un tema che è emerso prepotentemente nei resoconti dei CEO presenti al recente summit di Davos è stato quello dell’execution . La capacità di saper identificare l’how, l’who, il when ed il why del business, sapendo declinare velocemente, viene considerata una soft skill critica, rilevante sia da un punto di vista strategico che operativo, indipendentemente dai segmenti di mercato in cui si opera. Potrà sembrare paradossale ma sempre di più la competizione si gioca oggi sul livello di execution di una strategia.

Non si tratta della capacità di realizzare un piano o di gestire attraverso la logica del project management, bensì di un approccio complessivo che investe l’organizzazione, la cultura, le operations, la tecnologia applicata, le risorse umane. In un contesto globale, interconnesso, altamente competitivo come quello attuale, non è più valida la regola ’ once and done ‘ ma si viene continuamente sollecitati ad un continuo riposizionamento. Quattro sono le dimensioni sulle quali occorre concentrarsi per riuscire a realizzare un elevato grado di execution: l’Alignement, l’Ability ,l’ Architecture , l’Agility .

Non siamo di fronte a categorie nuove perché da tempo le imprese le hanno affrontate per migliorare le loro perfomances , seguendo i più disparati modelli ma la novità sta nel framework che deve essere colto e sviluppato fra queste categorie, nel cogliere l’interconnessione , i fattori critici e le aree di miglioramento, nella consapevolezza che il successo dell’execution deriva da questo approccio complessivo . Un limite che spesso riscontriamo nelle aziende nostre clienti, anche in quelle che hanno realizzato ragguardevoli successi, è rappresentato, infatti, dall’aver operato solo in qualcuna di queste dimensioni ma non in tutte e, in particolare, di non aver dato continuità al processo ma di essersi limitati ai primi risultati senza rimettersi in discussione.

Da un punto di vista metodologico si tratta di avviare un processo di assessment, articolato in tre step, di ciascuna di queste dimensioni, finalizzato in prima istanza a: rimettere in discussione i risultati raggiunti ed il business model, verificare le modalità seguite, misurare il livello di coinvolgimento e di condivisione nonché la reattività dell’organizzazione. Successivamente per ognuna delle quattro dimensioni dovranno essere analizzate le aree critiche, le barriere createsi nel frattempo, le opportunità perse, i conseguenti costi spesso nascosti o non adeguatamente percepiti. Nella fase finale vengono definite le aeree nelle quali pianificare gli interventi in funzione delle priorità accertate.

Non si tratta di un’indagine di clima o di una nuova versione del continuous improvement ma di un metodo che assicura al termine la disponibilità di un ‘ Execution capability profile ‘ o se si preferisce di una bussola attraverso la quale monitorare l’evoluzione complessiva del business. Purtroppo verifichiamo spesso la tendenza a concentrarsi subito sull’action plan mentre questo metodo richiede tempo per un’attenta riflessione, per rielaborare poi un’adeguata execution. Capita spesso che una volta percepito un problema il leader deleghi la soluzione mentre invece a nostro avviso il leader deve mantenere la gestione ed il controllo dell’execution, organizzando su base periodica una sorta di feedback loops.

Un impegno continuativo che richiede anche l’adozione ed il rispetto della disciplina. L’esperienza realizzata in alcune realtà , ci porta a suggerire di condividere un percorso che faciliti i managers nello scegliere e fare proprio il metodo perché questo riduce i tempi di attuazione ed il tempo era , è e sarà sempre una variabile estremamente critica.



a cura di

Antonio Angioni
Senior Partner
Poliedros Management Consulting

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Machine Learning e Cloud di al servizio delle risorse umane

Secondo una recente ricerca svolta da Oracle sul tema dell’innovazione digitale, la tecnologia evolve con un’accelerazione forte: ecco perché scegliere gli strumenti giusti, innovativi ed affidabili, è un fattore critico di successo oggi e un sensibile vantaggio competitivo domani.

L’Organizzazione deve essere agile, ed evitare di complicare situazioni e processi semplici. L’approvazione di una nuova “vacancy” (posizione aperta per il recruiting) o di una proposta di assunzione deve poter essere data leggendo in modo chiaro cosa si deve approvare, e possibilmente con un solo click: semplice, no?

Inoltre, viviamo in piena “experience economy”, è sentitissimo il tema dell’esperienza: quella che si fa vivere a un candidato mentre svolge un percorso di selezione, o quella del recruiter stesso, mentre utilizza il proprio Applicant Tracking System, ma anche quella di un manager di linea a cui serve soltanto sapere quando la persona che deve inserire nel Team sarà “pronta al via”.

Le aspettative che i candidati nutrono verso la Società con cui stanno facendo un percorso di selezione sono influenzate dalla loro esperienza come consumatori di prodotti o servizi di quel brand, ed anche le politiche di employer branding sono un biglietto da visita potentissimo dell’Azienda, ed un anello fondamentale del processo di talent acquisition.

E se è vero che entro il 2022 più del 70% dei cosiddetti “colletti bianchi” giornalmente avrà almeno una interazione con piattaforme di tipo conversazionale, capiamo come la voice platform, già diffusa oggi nella nostra vita privata tramite, ad esempio, Siri, domani sarà ancora più diffusa e presente sul luogo di lavoro.

Tutti questi strumenti sono oggi disponibili in modalità “as a Service” tramite il Cloud. E se poi è un Cloud di seconda generazione, si ha anche la possibilità di incrociare dati importanti in tutta sicurezza (garantita appunto dalle caratteristiche uniche del Cloud Gen 2 di Oracle, basate su AI e machine learning per evitare i cyberattacchi e l’errore umano) ed effettuare preziose simulazioni o analisi di tipo “what if”.

E questo è testimoniato anche dal posizionamento di Oracle HCM Cloud, al vertice del “quadrante magico” di Gartner sulle Human Capital Management Solutions.

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Tecnologia e persone: trovare l’equilibrio per valorizzare talenti e competenze

Il ruolo delle HR è sempre più strategico, perché scegliere e attrarre le persone giuste, motivarle e valorizzarle è e sarà sempre più importante per portare le imprese a centrare i loro obiettivi di crescita e sviluppo. È questo il tema chiave della survey che, per il secondo anno consecutivo, Osservatorio Imprese Lavoro Inaz e Business International presentano a HR Business Conference: la ricerca sugli orientamenti strategici delle funzioni Risorse Umane di un campione di aziende italiane ci permette di proseguire il percorso tracciato l’anno scorso e di rilevare quali evoluzioni stanno portando la trasformazione tecnologica e la trasformazione delle abitudini delle persone, con il consolidarsi nel mercato del lavoro della generazione dei Millennials e l’arrivo della nuova Generazione Z.

Il digitale continua a essere il fattore “disrupting” per eccellenza e gli HR manager sentono sempre di più la necessità di innovare, sperimentare, adottare nuovi modelli di organizzazione del lavoro e delle persone. Ed è qui che emerge, e non è un paradosso, il bisogno di sviluppare e valorizzare, nella forza lavoro, competenze al 100% umane: capacità cognitive di alto livello, capacità di imparare, ma anche capacità di provare empatia e coltivare un’intelligenza sociale ed emozionale.

Sono elementi che sono da sempre al centro delle attività Inaz: per noi è importante lavorare insieme agli HR manager per poter realizzare progetti che mettano a fattor comune la nostra esperienza in software e soluzioni per le risorse umane e le competenze degli specialisti HR che applicheranno direttamente sul campo. Oggi è infatti determinante, per le organizzazioni, poter avere a disposizione non soluzioni standard, ma progetti unici e personalizzati per ogni specifica esigenza, sviluppati a partire dallo studio del cliente e delle sue esigenz e realizzati per accompagnarlo nella sua crescita e nei suoi cambiamenti.

Questo significa, per noi, mettere al centro il fattore umano. Da oltre settant’anni.

a cura di
Linda Gilli
Presidente e Amministratore Delegato
Inaz

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Il posto fisso? Una specie in via di estinzione

"Il lavoro non è più un posto dove andiamo, ma qualcosa che facciamo”. Si apre così uno studio condotto da IDC che indaga come sta cambiando la concezione di “posto di lavoro”.

Il posto fisso
Oggi, il posto di lavoro non è più percepito come uno spazio fisico o un orario prestabilito. Le persone non vogliono più un lavoro fisso inquadrato in una rigida fascia oraria 9.00-18.00, ma preferiscono la possibilità di lavorare ovunque, a qualunque ora e da qualsiasi dispositivo. La possibilità di fare smart working e lavorare da remoto è una caratteristica sempre più ricercata durante i colloqui di lavoro, in particolare da chi ha figli o si deve prendere cura di un’altra persona, ma anche da tutta la generazione di millennial che è nata e cresciuta con una mentalità completamente nuova riguardo al lavoro, molto più dinamica rispetto a 50 anni fa.

I vantaggi sono tanti: il lavoro flessibile non permette soltanto di dedicare più tempo alla famiglia, ma anche alle proprie passioni o, più banalmente, al tecnico della lavastoviglie che può venire a sistemarla solo il mercoledì tra le 11.00 e le 11.30. Fare smart working è ormai concepito come una riappropriazione del proprio tempo, il che non significa smettere di lavorare, ma ottimizzare meglio il tempo, ad esempio evitando le ore passate nel traffico per recarsi in ufficio.

L’era del digital workplace
L’evoluzione verso quella che IDC definisce “l’era del digital workplace” è già iniziata e non interessa soltanto i dipendenti, come si potrebbe pensare, ma anche i dirigenti delle aziende hanno iniziato a parlare di smart working. È dimostrato infatti, che le aziende che abbracciano la filosofia del “digital workplace” ricevono il sestuplo delle candidature per ogni posizione aperta rispetto alle cosiddette aziende tradizionali.

Risulta quindi chiaro verso cosa si indirizzi l’interesse dei lavoratori nel momento di ricerca di una nuova posizione. Di conseguenza, solo le aziende che sapranno adattarsi a questo cambiamento potranno, nei prossimi anni, conquistare i migliori talenti e trattenere i propri lavoratori. La flessibilità di orari e luoghi rientra, insieme alla formazione continua e allo sviluppo professionale e personale, in quella che viene definitiva retribuzione emotiva, ricercata e considerata alla pari della retribuzione salariale durante i colloqui.

I lavoratori liberi sono lavoratori felici
Il motivo alla base di questa trasformazione è semplice e lo confermano anche gli studi di sociologia: i lavoratori con un orario flessibile sono più felici, e i lavoratori più felici sono lavoratori più produttivi. L’equazione è chiara. Ben vengano quindi le reti cloud per condividere i documenti, le riunioni fatte con Skype e i messaggi WhatsApp per aggiornare un collega sulle ultime novità. C’è ancora qualcuno, però, che non vede di buon occhio questi strumenti e continua a farsi promotore di un unico modello di lavoro, quello “tradizionale”.

I dirigenti più scettici nei confronti del “digital worlplace”, coloro che temono in un calo della produttività da parte dei propri dipendenti, sono però facilmente smentiti dalle ricerche dell’Osservatorio del Politecnico di Milano dedicato proprio allo smart working. Risulta infatti che non solo una gestione matura dell’equilibrio tra vita privata e lavoro, perseguito con senso di responsabilità, autodisciplina e automotivazione è possibile, ma che è anche un vantaggio per le aziende. Un utilizzo saggio ed equilibrato dello smart working può portare all’azienda un incremento di produttività pari a circa il 15% per lavoratore, sia in piccole sia in grandi aziende.

E le aziende italiane?

Questo 15% di produttività in più in ogni azienda si traduce, a livello italiano, in 13,7 miliardi di euro di benefici complessivi per il Paese. Risulta quindi incredibile che la rivoluzione smart working non sia ancora penetrata a fondo nel mondo delle imprese italiane, dove si nota ancora un po’ di resistenza.

A livello europeo, secondo IDC, il 56% dei lavoratori europei aveva rinunciato all’idea del “posto fisso” a favore di un lavoro più mobile già nel 2017. Con circa 7 milioni (su 22 milioni di lavoratori), i mobile worker italiani si collocano decisamente al di sotto della media europea anche se, stando alle analisi IDC, questo numero sembra essere destinato ad aumentare sensibilmente nei prossimi due anni, arrivando a circa 10 milioni entro il 2020, segno che anche gli italiani stanno cambiando la loro mentalità lavorativa.

a cura di
Maria Pedrinelli
Regional Sales Manager
Cornerstone
 

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Inglese, la lingua dell’innovazione

Un’idea brillante è sempre brillante. Non importa in che lingua sia espressa. Ad ogni modo, oggi per raggiungere più persone con le tue idee devi comunicare in una lingua comune: l’inglese. Il World Economic Forum stima che 1.5 miliardi di persone parlino inglese nel Mondo, di cui 360 milioni madre lingua. Non è casuale quindi che l’inglese sia diventato di fatto la lingua ufficiale del business. Il crescente scambio di informazioni a livello internazionale obbliga il mondo del Lavoro a fare riferimento alle migliori practice, dove l’inglese è la chiave di comunicazione essenziale.
 
Un ampio numero di ricerche accademiche mostra come gruppi con culture diverse prendano decisioni migliori, si affidino più ai fatti che alle opinioni e soffrano meno pregiudizi cognitivi, impattando positivamente sui processi di innovazione. Un buon livello d’inglese favorisce la diversità.

La situazione Italiana

L’EF English Proficiency Index, l’indagine mondiale e la classifica di EF che misura il livello di conoscenza dell’inglese, si basa sui risultati dei test sostenuti da oltre 2.300.000 persone, evidenziando la correlazione tra conoscenza dell'inglese, variabili macroeconomiche per Nazione e Regione, e variabili microeconomiche per Industry e Ruoli/Famiglie Professionali.

Il rapporto 2019 dell’ EF EPI mostra una situazione dove l’italia si posiziona 36esima a livello mondiale (in calo dalla 34 posizione del 2018), e nelle ultime posizioni in Europa, molto dietro la Scandinavia, Paesi Bassi, Germania, Francia e Spagna, confermando un gap linguistico negativo in crescita. Naturalmente in Italia ci sono aree che possiedono un buon livello di conoscenza ma, in generale, il nostro Paese mantiene un grande bisogno di connessioni e comunicazioni più efficaci con il resto del Mondo

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Il 2019 si sta concludendo: inizia un nuovo decennio che sarà di grande cambiamento

Se guardiamo agli ultimi 50 anni tutti i “9” sono stati l’inizio di grandi cambiamenti. Ma questa volta il cambiamento sarà molto più significativo per tutte le professioni. In vent’anni il modello di business della professione legale si è modificato radicalmente: da posizione privilegiata e protetta ad un mercato completo che deve seguire le regole economiche. Un’attività industriale basata sulla vendita di servizi legali.
 
Evidentemente questo profondo cambiamento ha mutato radicalmente il rapporto professionista/cliente. A tal proposito risulta molto interessante il rapporto, appena pubblicato, dell’osservatorio delle professioni del Politecnico di Milano che ha analizzato il rapporto tra professionisti e PMI, ove si legge: “Dal confronto tra PMI e studi in merito alle priorità del sistema di servizio (attraverso l’esame di alcuni suoi punti di contatto), emergono due percezioni diverse tra loro, segno che domanda e offerta non sono perfettamente allineate. Considerato il fatto che il driver delle scelte proviene dal mercato, è quasi automatico pensare che la progettazione dell’offerta non riesca a leggere con precisione le necessità della domanda”. Per poi concludere: “le PMI, clientela importante per gli studi, ritengono che poco più della metà degli studi non sia proattiva, esprimendo, quindi, il desiderio di voler più ‘iniziativa’ autonoma da parte degli stessi.

L'importanza attribuita alle diverse componenti del sistema di servizio da parte delle PMI e degli studi in alcuni casi è significativamente differente. E' l'ulteriore testimonianza del disallineamento tra domanda e offerta di servizi professionali e della necessità da parte degli studi di creare nuove modalità di ascolto con la clientela per essere più aderenti ai loro bisogni”.

Alcune voci sono ritenute molto più importanti dagli studi rispetto alla domanda (tempestività delle risposte, spiegazioni esaurienti, risposte a ogni quesito, supporto alle decisioni aziendali), altre, invece, sono sottostimate nella loro importanza (mantenimento degli impegni dichiarati, consigli sullo sviluppo aziendale, nuovi servizi, fornire in anticipo le informazioni, documenti facili da comprendere).

Ascoltare il cliente diventa non un esercizio occasionale ma periodico per poter avere i giusti sensori per captare i segnali, anche quelli deboli, utili ad allineare tempestivamente l’offerta con le esigenze della domanda. Indubbiamente i professionisti devono cambiare atteggiamento ed iniziare a occuparsi di più a soddisfare le esigenze dei clienti. Cominciando a chieder loro quali sono le loro priorità e le loro esigenze.
 
Certamente i professionisti devono imparare a dare ai clienti ciò di cui realmente hanno bisogno ma soprattutto anticipare i loro bisogni, con un atteggiamento attivo e propositivo. Non soltanto gestire i problemi ma creare soluzioni per evitarli. Questo è il principale significato di quello che le aziende chiamano “Partnership”. Tutto vero. Ma anche le aziende devono imparare ad usare i professionisti meglio, in modo più efficiente. Di fatto le aziende si preoccupano quasi esclusivamente del prezzo del servizio, perché la percezione del valore del prodotto è alquanto differente tra professionista e cliente, come si è visto.

Una vera partnership richiede investimenti da parte di entrambi ed anche fedeltà, continuità e quantità. Ed anche la propensione a cambiare. Molti processi aziendali sono ridondanti, inutili se non sbagliati ed inefficienti. Ma ogni volta che noi professionisti proponiamo soluzioni innovative, di fatto, il cambiamento diventa impossibile. Perché un ufficio legale interno o una direzione HR deve tenere ed aggiornare un archivio quando già lo facciamo noi? È più semplice ed economico accedere al nostro. Oppure smetterla di fare template con i word processor che dopo due mesi dall’introduzione non corrispondono più all’originale. E gli esempi potrebbero essere molti.

Il futuro delle relazioni tra professionista e clienti passa per un cambiamento profondo dove la tecnologia assume una posizione di grande rilievo, unitamente ad una chiarezza e certezza maggiori per i professionisti che inevitabilmente significa maggiore efficienza e minori costi per l’azienda.

a cura di

Franco Toffoletto
Managing Partner
Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

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