2021: LE PMI FINANZIANO LA CRESCITA
Ciò che emerge con forza dalla quarta edizione dell’Osservatorio è che, rispetto all’anno 2020, che
ha messo in grande difficoltà la maggior parte delle aziende medio-piccole, il 2021 è stato invece un
anno di assestamento in cui le PMI hanno cercato di rimettersi in piedi e tornare solide.
Lo dimostrano i numeri: l’anno scorso sono aumentati gli importi ipotizzati per il prossimo
finanziamento: se nel 2020 solo il 7%
delle imprese richiedeva cifre sopra ai 100.000 euro, nel 2021
ben il 39% delle imprese ha dichiarato che la prossima richiesta supererà quella soglia.
Anche le motivazioni per richiedere un prestito cambiano radicalmente dal 2020 al 2021:
diminuiscono quelle «emergenziali» e aumentano quelle «di prospettiva». Nel 2020 infatti il 42%
delle imprese ha utilizzato i prestiti per coprire esigenze di liquidità e il 34% per pagare i fornitori.
Invece nel 2021 alla domanda sulla destinazione del prossimo finanziamento, solo il 30% delle
imprese ha dichiarato che lo userà per la liquidità e il 28% per pagare i fornitori. Tra le altre
motivazioni che spingono le PMI a richiedere un finanziamento ci sono, appunto, quelle legate alla
crescita, come: il rinnovo del magazzino (29%), l’implementazione dell’e-commerce (27%), nuove
assunzioni (24%) e l’acquisto di macchinari e software (23%).
Cambia anche ciò che gli imprenditori cercano in un finanziamento: resta invariata al primo posto
l’importanza del tasso d’interesse (per il 64% delle imprese), al secondo posto, ma meno rilevante
rispetto al 2020 la «velocità di erogazione» (dal 47% al 40%) e «l’ammontare dell’importo» (dal
42% al 35%), mentre aumentano l’importanza della «durata» del prestito (dal 33% al
38%) e della
presenza di un consulente personale (dal 20% al 25%).
COME SI FINANZIANO LE PMI: GLI STRUMENTI PIU' USATI
Nel 2021 le imprese hanno fatto ricorso a varie forme di finanziamento: dal fido alle carte di credito
– preferite principalmente dalle aziende più piccole - ai capitali propri - soluzione scelta da quelle
più grandi. Infatti, per quanto riguarda le ditte individuali, il 45% di esse ha fatto ricorso allo
strumento del fido e ben il 50% alle carte di credito. Le aziende più grandi invece, quelle con
fatturato tra i 5 e i 20 milioni di euro, hanno in buona parte preferito utilizzare capitali propri: ha
fatto questa scelta il 37% di queste imprese.
Ci sono state anche delle PMI che non hanno avuto bisogno di alcun tipo di finanziamento nel corso
dell’anno: ovvero le società di capitali (56%), quelle con fatturato sopra al milione (46%), ed anche
alcune di quelle con fatturato più basso (nella fattispecie, il 29% di quelle nella fascia 50.000 euro –
1 milione di euro).
I SETTORI:CHI FA PIU' DOMANDE DI FINANZIAMENTO
I settori che hanno fatto maggior ricorso ai finanziamenti sono stati quello dell’industria – il
13%
delle imprese di questo settore ha richiesto un prestito (ma nel 2020 era il 31%) – seguito dal
commercio (9% vs ben 35% l’anno prima), servizi (8% vs 28%) ed edilizia (4% vs
30%). È interessante
anche segnalare che nel 2021 ben il 58% delle imprese intervistate nel mondo dell’edilizia non ha
mai richiesto un finanziamento.
FOCUS SULLE IMPRESE FEMMINILI
Dall’analisi emergono delle importanti differenze tra le imprese a conduzione femminile e le altre,
sia a livello totale che nello specifico delle ditte individuali. Le imprese femminili si sono rivolte
maggiormente al fido (51%) e alle carte di credito (57%) come forme di finanziamento rispetto alle
imprese non femminili (rispettivamente 38% e 43%). Invece la quota di quelle che non hanno avuto
bisogno di un prestito è del 26% per le ditte individuali non femminili, mentre scende al
10% per le
femminili. Le tipologie di finanziamento predilette da queste PMI sono il mutuo (utilizzato dal
60%
delle imprese femminili nell’ultimo anno) e finanziamento a lungo termine (52%). Queste aziende
sembrano più orientate ad un’ottica di investimento: hanno usato il credito per creare o migliorare
l’e-commerce (31% contro 22% delle imprese non femminili) e per assumere nuove risorse (26% vs
16%).
Se si osservano i dati relativi alle intenzioni future di finanziamento, emerge chiaramente un
bisogno “più urgente” da parte delle imprese femminili: il 10% pensa di richiederlo entro 3 mesi, il
33% entro 6 mesi e il 22% entro l’anno – mentre il 28% delle imprese non femminili lo richiederà più
avanti nel tempo e il 39% dichiara di non averne bisogno. Spicca inoltre una forte attenzione alle
risorse umane: infatti il 26% delle aziende femminili utilizzerà il prossimo finanziamento per formare
e assumere dipendenti, contro un 18% delle altre PMI.
Un altro dato interessante riguarda i canali che le imprenditrici pensano di utilizzare per informarsi
su un finanziamento futuro: sono decisamente meno le ditte femminili (48%) che pensano di
utilizzare il consulente in banca rispetto a quelle maschili (70%). La banca diventa, quindi, non più il
canale principale d’informazione di questa categoria, ma resta alla pari della ricerca online (44%) e
del consiglio del commercialista (41%).
“La quarta edizione del nostro osservatorio ci racconta di un’Italia imprenditoriale che è stata
piegata da due anni di pandemia, ma oggi solleva la testa e comincia a ipotizzare un futuro fatto di
investimenti per ripartire e tornare a crescere, anche se in un contesto geopolitico e macroeconomico
incerto come quello attuale – ha dichiarato Ignazio Rocco, Founder e CEO di Credimi.
– Sono infatti
diminuite le motivazioni più strettamente emergenziali per richiedere un finanziamento e aumentate
quelle che riflettono una prospettiva sul futuro. Credo che le imprenditrici e gli imprenditori italiani
abbiano capito che per affrontare i momenti di crisi sia importante investire in tecnologia, risorse
umane, magazzino per farsi trovare pronti quando si vivono periodi incerti come quello appena
trascorso e, purtroppo, come quello attuale. Un cambio di passo importante che va sostenuto e
continuamente promosso perché le PMI sono l’ossatura della nostra economia. Come durante il
periodo del lockdown Credimi è stata al fianco delle imprese, aiutandole con lo strumento dei
finanziamenti, allo stesso modo oggi lavoriamo per aiutarle a navigare, e a crescere, anche durante
questo periodo complesso, attraverso l’ascolto continuo delle loro reali esigenze.”
“Questa nuova edizione dell’osservatorio ci restituisce il quadro di un tessuto industriale delle PMI
desideroso di ripartire e convinto che ci siano le condizioni per farlo – afferma Bruno Lagomarsino,
Direttore di ricerca di Nextplora. – Il dato appare ancora più promettente tenendo conto che sono
proprio le aziende di dimensioni minori, quelle individuali e con un fatturato inferiore al milione, a
prevedere un maggiore ricorso al finanziamento. Si tratta pertanto della quota numericamente
prevalente, spinta senza dubbio dalla necessità, ma, leggendo le motivazioni, anche dal desiderio di
supportare interventi orientati alla crescita. Una fotografia di speranza che, ci auguriamo tutti, possa
non essere del tutto vanificata dagli eventi geopolitici e macroeconomici che
stiamo vivendo.”
LE OPPORTUNITA' DI UNA BUONA STRATEGIA ESG
Diventa chiaro, pertanto, quanto sia imprescindibile per il CFO nell’era post covid-19 avere un focus sulla governance ESG. «Sotto questo profilo, una buona strategia ESG – prosegue Agasso – supporta una crescita della top-line. Una forte proposta ESG aiuta le aziende ad indentificare nuove opportunità di business: accedendo a nuovi mercati,
espandendosi in quelli esistenti, guidando la preferenza dei consumatori». Un investimento e un’attenzione di questo tipo, però, per poter portare vantaggio al business deve permettere anche una riduzione dei costi. «Un’esecuzione efficace dei criteri ESG – risponde la CFO – può aiutare a combattere l’aumento di alcune tipologie di costi, consentendo, inoltre, una più efficace gestione degli investimenti, tramite l’allocazione di capitale ad iniziative innovative e sostenibili e aiutando concretamente anche l’organizzazione a dare ai dipendenti un senso di scopo, attraendo e trattenendo i migliori talenti e creando in questo modo un reale vantaggio competitivo per l’azienda».
LA STRADA SOSTENIBILE PER LA CRESCITA
Un vantaggio che, chiaramente, deve poi essere consolidato attraverso una riorganizzazione fluida e flessibile dei processi operativi, che garantisca una comunicazione interconnessa tra i vari dipartimenti aziendali e che allo stesso tempo offra anche opportunità di promozione dell’attività stessa verso gli stakeholder esterni all’impresa per spiegare il valore aggiunto prodotto da queste nuove strategie sostenibili. «Generalmente – sottolinea la manager –, gli attuali processi e sistemi di reporting non sono in grado di acquisire con precisione i dati necessari per misurare i benefici finanziari dei programmi di sostenibilità. Le aziende dovrebbero pertanto concentrarsi sulla costruzione di solidi processi e sistemi per la raccolta ed il reporting di dati ESG, simili ai loro attuali meccanismi per la raccolta ed il reporting dei dati finanziari».
LA VERA SFIDA NON E' METTERE AL CENTRO I DATI, MA LE PERSONE
Una sfida complessa da affrontare, questa, e su cui le aziende italiane dovranno ancora lavorare molto, ma che può essere superata abbracciando un cambiamento che metta al centro le persone e i loro valori, orientando la leadership e l’organizzazione intera verso una nuova modalità di fare business. «Insieme alla parte ‘’hard’’ è importante che le organizzazioni garantiscano il giusto focus sulla parte ‘’soft’’ – chiosa Agasso –. È infatti fondamentale che l’ESG diventi una parte integrante della cultura e dei valori dell’organizzazione, in modo da costituire un framework condiviso ed essere naturalmente incorporato in tutti i processi aziendali. Solo in questo modo, i modelli ESG diventeranno la nuova spina dorsale delle imprese e creeranno quell’appartenenza essenziale per costruire il futuro sulle basi della sostenibilità a 360 gradi».
«L’Italia ha un’industria del Fintech florida, nata in ritardo rispetto al resto del mondo ma che nel giro di pochi anni ha saputo crescere. Vale in particolare per il settore del business lending che è il più importante in Europa in termini di erogato a dispetto di un ambiente per nulla incentivante, per non dire ostile. E di un venture capital che diversamente dal resto del mondo resta piccolo e fa fatica a raggiungere i peer anche solo europei». E' questa la prima fotografia che Sabino Costanza, Co-founder, Strategy & Funding Officer di Credimi, propone all'interno di un suo recente whitepaper, realizzato per analizzare il mercato italiano del fintech e i possibili modelli da cui prendere ispirazione per sviluppare sempre di più il settore anche nel nostro Paese. Un documento che abbiamo voluto capire meglio in vista della prossima edizione del Milan Fintech Summit, l'evento organizzato da Business International - Fiera Milano, in collaborazione con Fintech District, e previsto dal 5 al 7 ottobre 2022. «Gli attori del fintech italiano - continua il manager - sono infatti solide scale-up con sistemi tecnologici proprietari che, grazie anche all’impulso dei lockdown pandemici, sono state in grado di servire una fitta rete di imprese un(der)banked».
Bisognerebbe allora cogliere l’occasione per spingere sull’acceleratore, approfittando di questo momento particolarmente positivo.
Il
modello britannico a cui ispirarsi
Il modello da seguire secondo Costanza, dunque, è sicuramente quello del Regno Unito, dove a fine febbraio, 70 CEO fintech hanno pubblicato una lettera aperta di raccomandazioni a governo e regolatori, invocando una promozione ancora maggiore della concorrenza nei servizi finanziari e un ambiente ancora più aperto a innovazione, attrazione di talenti e investimenti. «Tutte raccomandazioni - commenta il manager - che dovrebbero applicarsi anche all’Italia, dove peraltro il fintech raccoglie un centesimo degli investimenti britannici. E dunque delle cose raccomandate nella lettera ha 100 volte più bisogno». La lettera arriva a tracciare un bilancio a un anno dal Kalifa Review, il report sul settore commissionato dal “Cancelliere dello Scacchiere” - Chancellor of the Exchequer, ovvero l’antico titolo del ministro del governo britannico con responsabilità di Ministro delle Finanze. «Il rapporto - sottolinea Costanza - ha disegnato una strategia chiara e una tabella di marcia articolata in cinque capitoli: politica e regolamentazione; competenze; investimenti; mercati internazionali; ecosistema nazionale. Proprio seguendo le richieste del fintech il governo britannico ha fatto diversi passi avanti». Per citarne solo alcuni: la fondazione del Centro per la finanza, l'innovazione e la tecnologia (CFIT) guidato dall'industria, che contribuirà a catalizzare lo sviluppo di soluzioni necessarie a vincere sfide critiche come l'open banking, l'ID digitale e la finanza per le piccole imprese. Mentre il ministero dell'Istruzione ha incontrato i rappresentanti di questa industria per capire meglio che professionalità vanno formate per lavorare nel settore e come quest’ultimo utilizza anche strumenti come l'apprendistato.
«Sul fronte degli investimenti - aggiunge il manager -, il governo e le autorità di regolamentazione hanno compiuto progressi nella revisione del regime di quotazione per rendere il mercato più attraente per le società di tutto il mondo, con la creazione di una "golden share" per i fondatori e una riduzione del requisito minimo di flottante». Nella legge di bilancio il Cancelliere ha anche confermato che i crediti d'imposta per la ricerca e lo sviluppo per l'innovazione saranno estesi ai dati e al cloud computing (aumentando gli investimenti in fintech, AI, open banking e SaaS) e ha stanziato 160 milioni di sterline per la British Business Bank per co-investire con i business angel regionali, contribuendo a colmare il deficit di finanziamento che ancora esiste nell’early stage.
Fintech come volano di sviluppo di economia, lavoro e inclusione finanziaria
«Lo sviluppo del fintech, in Inghilterra e non solo - aggiunge Costanza -, può diventare un volano di crescita importante. Si pensi a come possa promuovere la creazione di posti di lavoro e l'occupazione ad alto reddito. Può rendere un paese più competitivo nel contesto internazionale, consentendo a un maggior numero di fintech di aumentare di dimensione e raggiungere una portata globale, guidando la definizione degli standard. Infine può aiutare i cittadini e le piccole imprese ad accedere a servizi finanziari diversi, migliori e meno costosi, rendendo la finanza più inclusiva, democratica e sostenibile».
Il venture capital globale punta sul fintech: e l’Italia?
Queste sono anche le ragioni per cui il fintech nel 2021 si è posizionato al centro del radar degli investitori a livello globale. Secondo il report sul VC di CB Insights, il venture capital globale vale 620,8 miliardi di dollari, ed è più che raddoppiato nel 2021, con un quarto trimestre (a 176 miliardi) che ha segnato il record di tutti i tempi. Di queste risorse, ben un dollaro ogni 5 è andato a società fintech, per un totale complessivo di 132 miliardi, o il 21% del mercato. I finanziamenti alle fintech nel 2021 sono aumentati del 169% dai 49 miliardi del 2020. E se non bastasse, un unicorno ogni quattro è nel settore di cui parliamo (34 unicorni sono nati nel quarto trimestre portando il dato complessivo a 235). Infine, le fintech hanno anche la maggior proporzione di early stage in assoluto (il 64% dei finanziamenti totali sono destinati alle fasi iniziali di sviluppo delle start-up), il che indica una crescita ulteriore nell’anno in corso e in quelli a venire. «Tornando ai dati complessivi del venture capital - sottolinea Costanza -, in Europa il Regno Unito continua a dominare a quota 29 miliardi di dollari, seguito da Germania (17,5 miliardi) e Francia (12,2 miliardi). In tutti i paesi le fintech si sono distinte per essere leader di raccolta, anche in Italia dove, secondo il report di EY Venture Capital Barometer per la prima volta si è superato il miliardo di capitali complessivamente confluiti sulle start-up: 1.243 milioni di euro, +118% rispetto al 2020, al secondo posto solo dopo il foodtech»
L’Italia gioca un altro campionato
Ma i numeri del venture capital italiano ci posizionano anni luce rispetto a economie similari, come abbiamo visto per Francia e Germania. E il dato è ancora più stridente se si restringe lo sguardo non solo al fintech ma al digital lending, dove l’erogato per PMI, secondo le stime di talia Fintech, continua a crescere a ritmo serrato: nei primi nove mesi del 2021 il valore dei finanziamenti erogati alle PMI attraverso le piattaforme fintech è ammontato a 2,3 miliardi rispetto al 1 miliardo dei primi nove mesi 2020, numeri in forte crescita considerando il dato complessivo di 1,6 miliardi del 2020.
«In totale - sottolinea il manager -, sono stati ampiamente superati i 4 miliardi di euro, una cifra di gran lunga superiore a quanto erogato in Francia, Spagna o Germania. L’Italia è quindi il mercato di spicco nel contesto europeo che vale poco più di 19 miliardi di erogato (il dato di p2p market include anche piattaforme di credito al consumo). E questo a fronte di investimenti in venture capital scarsissimi e di una serie di altri difetti atavici e sedimentati. Su questi difetti si deve agire se si vuole cambiare il sistema. Più e prima che spingere per incentivare con agevolazioni fiscali la creazione di start-up». Anche se, nonostante un contesto del genere, non bisogna dimenticare che in Italia ci sono comunque delle eccezioni che vanno prese ad esempio virtuoso: Scalapay, leader italiano dei pagamenti digitali, ha recentemente raccolto il maggiore investimento in start-up della storia del Paese: mezzo miliardo di dollari da fondi internazionali come Tencent e Willoughby Capital, con la partecipazione di Tiger Global, Gangwal, Moore Capital, Deimos e Fasanara Capital. In questo modo Scalapay ha acquisito un valore che va ben oltre il miliardo e diventa il terzo unicorno italiano, dopo Yoox e Depop.
>Burocrazia, assenza di incentivi e pregiudizi: i freni allo sviluppo del fintech italiano
Guardando alla burocrazia, poi, Costanza ricorda anche che «aprire nuovi business in Italia è più complesso che altrove». Nella classifica della Banca Mondiale sull’easing of doing business, il nostro Paese, che pure sta guadagnando punti, si piazza 58esimo nel mondo e crolla miseramente proprio sui numeri che indicano la fase di “starting a business”. «Le cause di un tale posizionamento - spiega il manager - sono da ricercare nei livelli di burocrazia più alti che nella maggior parte dei paesi europei. Ad esempio, le aziende straniere impiegano un mese per aprire un conto bancario in Italia, ma due settimane in Repubblica Ceca e Ungheria. A seconda del livello di complessità, le aziende che vogliono costituirsi in Italia devono avere a che fare da tre fino a cinque istituzioni diverse, contro le due dell'Austria, o solo una in paesi come il Regno Unito e l'Irlanda. Inoltre è necessario registrarsi presso tre autorità fiscali, al contrario di una sola come avviene in Spagna. E poi c’è il tema della giustizia lumaca che influisce sulle politiche del personale in maniera decisiva». Sul fronte incentivi invece, secondo Sabino Costanza,
«l’Italia ha fatto grandissimi passi avanti sia per quanto riguarda le corporate che per le pmi di settori tradizionali che vogliono digitalizzarsi. Con i vari pacchetti Transizione 4.0, la nuova Sabatini, ma anche il credito di imposta sulla formazione o quello specifico per il Sud, tutte le imprese possono acquistare macchinari e software per la transizione 4.0, recuperando in compensazione con F24 in tre anni fino al 100% dell’importo speso. Anche cumulando gli incentivi. Continuano purtroppo a mancare agevolazioni per gli investimenti per la crescita di start-up fintech. In generale le spese in IT sono escluse dagli ammortamenti: se una fintech acquista un immobile lo può ammortizzare e includere nel capitale proprio. Se invece investe nel lavoro di 80 ingegneri o altrettanti programmatori per scrivere righe di codice, quel costo finisce. In pratica ogni start-up tecnologica in Italia ha un valore pari a zero a bilancio». Infine, l'ultimo punto fondamentale da menzionare per lo sviluppo di questo mercato fintech anche in Italia è quello di approcciare il settore con uno storytelling nuovo e diverso
Il mercato dell’innovazione nel mondo finanziario ha uno standing elevato nel nostro paese. E segue una tradizione antica di primato tecnologico, che rimanda a Olivetti. Se siamo pionieri in mercati che nascono da zero e riusciamo a raggiungere risultati eccellenti nel contesto descritto caratterizzato da burocrazia aberrante, giustizia lumaca e investimenti rarefatti, dobbiamo comunicarlo in maniera decisa e convinta. Mostrando l’offerta tecnologica eccellente anche ai talenti che in tutt’Europa sono a caccia di posti di lavoro allettanti. L’Hub di Milano va reso noto a Londra, Parigi, Berlino, Barcellona: i giovani ingegneri e i giovani manager di queste capitali europee devono essere consapevoli dell’opportunità di carriera che possono trovare nelle fintech italiane
«L’innovazione, in termini tecnologici, organizzativi, di prodotto e di processo, può diventare il nuovo driver per azzerare il trade-off tra redditività aziendale e crescita sostenibile». È così che Maria Grazia Cafagna, Director – Head of FS Global solutions di CCH® Tagetik, Expert Solution di Wolters Kluwer, ha commentato i risultati del report dal titolo “ESG e finanza di impresa: a che punto siamo?”, realizzato da Business International – Fiera Milano, in collaborazione proprio con CCH Tagetik, Expert Solution di Wolters Kluwer, interpretando il rapporto simbiotico che si sviluppa oggi tra il mondo dell’innovation e quello della sustainability. Due universi apparentemente distanti che non possono, però, esistere l’uno senza l’altro. «Incentivare le imprese a orientarsi verso investimenti che ne accrescano la sostenibilità, ma che siano al contempo redditizi – continua la manager –, ai giorni nostri può voler dire, per esempio, produrre investimenti sul rinnovamento degli impianti e degli edifici, per garantire all’impresa una riduzione dei costi operativi e significativi miglioramenti nell’efficienza energetica, o su intelligenze artificiali, per consentire una maggiore efficienza dei trasporti e della logistica e contemporaneamente una riduzione dell’impatto ambientale dei processi operativi».
LA SOSTENIBILITA’ E IL VALORE DEL DATO
Per arrivare a una strategia di questo tipo, che sappia guardare al
futuro e al lungo periodo, però, bisogna partire prima dalla cura e dalla
gestione di un tassello fondamentale su cui poi strutturare tutto il proprio
percorso di
trasformazione sostenibile: il
dato. «Garantire la disponibilità di dati ESG aggiornati, fruibili e
confrontabili che, provenendo da diverse fonti non sempre omogenee, siano anche
razionalizzati e normalizzati, oltre che integrati con informazioni di carattere
finanziario – sottolinea Cafagna –, oggi, consente ai CFO di avere a
disposizione, nei tempi compatibili con le chiusure aziendali, le informazioni
necessarie per una corretta governance della sostenibilità e per calare appieno
la strategia ESG nella più ampia strategia aziendale di creazione del valore».
Un processo, questo, che evidenzia a sua volta come il legame tra sostenibilità
e finanza, ormai, sia sempre più evidente. Perseguire gli obiettivi tipici della
gestione finanziaria, tenendo in considerazione anche gli aspetti di
sostenibilità ambientale, sociale e di governance aziendale, crea quindi valore
per l’impresa stessa e per tutti i suoi stakeholder. «Come attori chiave di
questo nuovo scenario – continua la manager – i CFO possono portare in tavola
abilità uniche in termini di misurazione e monitoraggio dei risultati
non-finanziari, bilanciandone il valore aggiunto con quello delle misure
finanziarie. La divisione Finance, sotto questo profilo, ha la prospettiva e le
competenze giuste per stabilire e sfruttare un’infrastruttura di dati
efficiente, nonché un reporting integrato tra tutti i reparti, che garantiscano
il tracciamento e la valutazione delle metriche ESG ed anche il loro impatto
sulla performance finanziaria dell’azienda, così da guidare le scelte
strategiche nel rispondere con successo alle sfide della sostenibilità per
sfruttarne i relativi vantaggi».
LA LEVA VINCENTE DEI CFO DEL FUTURO
I
direttori finanziari del futuro dovranno, quindi, essere in grado di
garantire un forte coinvolgimento di tutte le funzioni aziendali, dalla
Sustainability per la raccolta e il reporting delle informazioni ESG fino al
Risk & Compliance per la gestione degli impatti dei rischi e delle opportunità
ESG e la compliance con le normative e i framework in vigore, ma per raggiungere
questo obiettivo avranno bisogno di un’infrastruttura capillare che sappia
connettere ogni punto di informazione interno ed esterno alla propria
organizzazione. «Per questo – ribadisce Cafagna –, il primo e principale
progetto su cui un CFO dovrebbe puntare oggi è quello della creazione di una “ESG
platform”, in grado di gestire e integrare dati non omogenei e
provenienti da fonti diverse per trasformarli in informazioni utilizzabili nei
processi decisionali dell’azienda».
I TRE PILASTRI DELL’APPROCCIO ESG
Per
arrivare a un ambiente virtuale di questo tipo, però, le imprese necessitano di
fare un percorso che promuova una nuova cultura e un nuovo approccio al
business. «Quando ci si avvicina al mondo ESG – chiosa la manager – ci sono tre
importanti aspetti da tenere in considerazione e che possono fare la differenza
tra un pericoloso fallimento e una strategia sostenibile di successo. In primis,
bisogna munirsi di sistemi per reperire, aggregare e interpretare, con metriche
chiare e tracciabili, i dati relativi alla sostenibilità, incorporandoli in
strutture ERP standardizzate. Ciò consentirebbe al CFO di offrire al management
e agli investitori facile accesso alle informazioni di cui hanno bisogno per
prendere le decisioni. In secondo luogo, poi, bisogna avere la capacità di
collegare le informazioni finanziare e non finanziarie. Questo, infatti,
permetterebbe di monetizzare i dati sulla sostenibilità, inserendo quest’ultima
nella strategia aziendale di cui monitorare poi l’esecuzione effettiva. In fine,
sarà essenziale attivare una rete di controlli interni in materia di ESG, in
grado di evidenziare chiaramente la materialità dei rischi di sostenibilità».