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SOSTENIBILITA’, INNOVAZIONE E TRASPARENZA, COSI’ SI MIGLIORA CULTURA E QUALITA’ DELLA VITA IN AZIENDA

«Quello che viviamo oggi è un momento di enorme trasformazione e, se dobbiamo pensare a quale sia il messaggio più importante che un brand possa far arrivare ai propri stakeholder, credo che questo sia far capire che esista uno scenario chiaro anche in un contesto di turbolenza assoluta come quello attuale. In questo senso, quindi, le aziende devono essere capaci di dire con chiarezza alle persone che cosa fanno e come lo fanno, permettendo loro di comprendere se sono allineate o meno con questa visione e se si possono riconoscere realmente in essa». E’ questo lo spazio concettuale su cui Livio Livi, Direttore Risorse Umane, Sostenibilità e Relazioni Esterne di Kuwait Petroleum Italia, ha voluto concentrarsi nel suo commento a latere della presentazione della ricerca “L’Employer Branding nell’era della Great Resignation: come attrarre i talenti nel nuovo mondo del lavoro” (realizzata da Business InternationalFiera Milano in collaborazione con Indeed) tenutasi nel corso dell’evento HR Directors Summit all’interno dell’edizione primaverile della settimana del Business Leaders Summit. Una visione precisa di uno stato dell’arte del mondo del lavoro che, tra i due anni di Pandemia appena passati e la crisi geopolitica in atto, è in costante evoluzione sia sotto un profilo socio-economico, sia da un punto di vista profondamente culturale. «La trasformazione tecnologica e culturale che per sintesi si focalizza e denomina in sostenibilità – spiega il manager – deve portare, quindi, le aziende a veicolare una visione nuova sia al loro esterno, sia al loro interno, attraverso tutti gli strumenti che hanno a loro disposizione. In questo scenario la grande novità da sfruttare risiede proprio nei nuovi metodi di comunicazione, dove il digitale permea tutto».

LA FORZA DELLA DIGITAL TRANSFORMATION

In questi due anni, infatti, il digitale si è evoluto e ha cambiato il nostro modo di stare insieme e anche l’ambiente in cui viviamo. Elementi che non possono essere più ignorati o sottovalutati. «La comunità aziendale oggi ha uno spazio diverso nel quale vive e che si articola tra lavoro in presenza e smart working – prosegue Livi –. In questo nuovo ambiente i modi di comunicare sono molto cambiati. Le persone sono a distanza e proprio per questo devono essere in grado di venire inserite comunque in un'unica dimensione virtuale. Nonostante questo, però, l’obiettivo dell’azienda deve rimanere quello di una creazione di equilibrio personale e di benessere che ovviamente varia e deve essere calibrata sulle esigenze di ogni singola persona, per far si che possa esprimere il suo potenziale al massimo e liberamente».

IL VALORE DELL’ASCOLTO

In questo senso, l’ascolto, l’empatia e la capacità di interpretare, analizzare e gestire le situazioni, soprattutto a livello interpersonale, diventano risorse essenziali per il futuro. «In ogni contesto, per migliorare, bisogna capitalizzare tutte le opportunità date da un nuovo scenario – sottolinea il manager –. Ai giorni nostri questo significa puntare tutto su sostenibilità e innovazione. Per farlo, però, prima di produrre qualsiasi tipo di investimento strutturale, è necessario mettere al centro la persona, elencando tutte le informazioni di cui ha bisogno per poter capire a fondo cosa stia succedendo e quindi da lì muoversi per cambiare davvero il volto all’azienda». Un approccio quasi filosofico, questo, che porta però a capire come, gestendo il problema alla radice, si possa impostare una vera strategia vincente per attrarre le migliori eccellenze presenti sul mercato. «La Talent Acquisition – continua il manager –, secondo noi, è fondamentalmente legata al concetto di sostenibilità. Prima di cercare nuovi professionisti, infatti, bisogna sempre porsi una domanda: “Tu chi vuoi?”. E’ chiaro, infatti, come per le aziende oggi la laurea e l’inglese siano elementi di base, ma è altrettanto cruciale valutare con attenzione anche un assessment in cultura digitale e in cultura di sostenibilità. Impostazioni mentali che consentono di mappare le persone non solo sulle competenze, ma anche sulla cultura giusta per affrontare il futuro».

METTERE IL TERRITORIO E LE PERSONE AL CENTRO

Un approccio che guarda avanti, dunque, e che pone grande attenzione nelle collaborazioni con il territorio circostante e nella capacità di interagire e coinvolgere la propria forza lavoro. «Dopo due anni di Pandemia – continua Livi – se si vuole davvero percorrere la strada della sostenibilità a 360 gradi, bisogna dare opportunità di crescita alle eccellenze sul territorio, creare internamente all’azienda un ambiente che sia sfidante e porti la persona a sentirsi in prima fila, organizzativamente parlando, nei progetti e nell’opera di cambiamento». In questo modo, ognuno porterà il suo contributo, sviluppando un senso di soddisfazione e appartenenza diffuso verso l’azienda. «Quella che noi chiamiamo social intelligence – spiega il manager – è uno dei quattro asset di sviluppo fondamentale per il futuro del business. Questo concetto, però, non si rifà solo all’aspetto empatico, ma verte anche su qualità come etica, trasparenza, correttezza e coerenza organizzativa su temi valoriali». Tutti aspetti che, ovviamente, generano benessere psicofisico nelle persone. «Se offri un ambiente nel quale c’è qualità di vita – commenta Livi – la gente non se ne va. Il nostro tasso di uscita, in Q8, per esempio, è sotto l’1%. Il nostro settore, infatti, è considerato una industry su cui investire in lungo periodo e l’uomo è sempre un asset che non va visto a breve raggio. Per questo, in una persona che entra nel nostro team, vogliamo vedere una prospettiva di lungo termine». Un ideale che, nell’ultimo periodo, con l’avvento del fenomeno della cosiddetta “Great Resignation”, sembra essersi un po’ perso. «Quello che è andato in criticità non è una competenza piuttosto che un’altra – sottolinea Livi –, ma sono state proprio le persone in senso generale. Ciò che abbiamo vissuto in questi due anni, probabilmente, è stato come trovarsi davanti a un bivio di scelte con cui confrontarci, dove la domanda principale è stata: “Cosa vuoi tu davvero?”. E rispetto alla risposta conseguente le persone hanno fatto la loro scelta. La gente se ne va dalle aziende oggi se non si trova più bene con se stessa e con il mondo circostante. Se non c’è equilibrio si cerca con sempre maggiore determinazione di ritrovarlo, senza guardare più a un salario più alto o a cose simili, come avveniva in passato, ma semplicemente all’equilibrio e alla qualità della propria vita».
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CHIMIRRI: DALLA DECENTRALIZZAZIONE DEL DECISION MAKING AL CULTURAL FIT, IL FUTURO DELLE HR È HUMAN CENTRED

«L’elemento valoriale è la guida per il nostro futuro nell’attrazione dei talenti e non solo». Inizia così il ragionamento di Gianfranco Chimirri, Global Human Resources Director di Unilever, commentando – nel corso di una chiacchierata realizzata durante l’HR Directors Summit, all’Interno di Business Leaders, a latere della presentazione della ricerca “L’Employer Branding nell’era della Great Resignation: attrarre i talenti nel nuovo mondo del lavoro” elaborata da Business InternationalFiera Milano, in collaborazione con Indeed – la trasformazione, o se vogliamo la rivoluzione, in atto nel mondo del lavoro. «I talenti – prosegue il manager – oggi hanno bisogno di trovare un meaningful job. Ciò significa che cercano un’azienda in cui si possano ritrovare e identificare, trovare il senso (why) di cosa fanno ed avere un impatto positivo sulla vita degli altri. Il cultural fit risulta così essenziale tanto per il professionista, quanto per l’organizzazione. Solo con quello si può trovare un reciproco e duraturo rapporto di successo». Un obiettivo che Unilever ha ben presente. A tal punto da riuscire a essere l’employer of choice per i professionisti di 65 Paesi nel mondo. «Ciò che potrebbe stupire, in questo senso, però – tiene a sottolineare Chimirri –, è il fatto che questo posizionamento non derivi dall’offerta di uno stipendio più alto rispetto ai mercati in cui operiamo, anzi, i nostri salari sono volutamente inseriti sulle medie di mercato, ma è uno scenario che si definisce perché le persone si realizzano professionalmente ed umanamente nell’organizzazione. Quando, infatti, si realizza un’attività che ogni giorno esprime il proprio purpose, allora si riesce a trovare la qualità della vita delle persone all’interno dell’organizzazione stessa».

YOU ARE MORE THAN YOUR JOB

Un meccanismo di appartenenza, quindi, che si sviluppa automaticamente e spesso promuove risultati migliori, rispetto a quelli ottenuti sulla base delle vecchie dinamiche di business. «Oggi lo slogan da tenere sempre presente è: “You are more than your job”. Può sembrare solo un claim, in realtà, ma, se diventa un cardine essenziale della logica aziendale, consente al professionista di voler mettersi in gioco in prima persona per raggiungere quell’extra mile che si traduce in maggiore engagement, produttività e quindi migliori risultati di business. (happy people producono happy business)». Una visione a campo largo e lungo periodo, di chiaro stampo internazionale, questa, che oggi, però, viene ancora più enfatizzata dalla trasformazione digitale in atto. «In senso generale, dal nostro punto di vista – commenta il manager –, più tecnologia c’è, più va evidenziato l’aspetto umano. Noi, per esempio, utilizziamo il precision employer branding, o data driven employer branding, proprio per valorizzare l’elemento umano. Può apparire come un ossimoro, infatti, ma da anni abbiamo abbandonato le logiche da “career day”, per focalizzarci sull’utilizzo delle analytics al fine di individuare i target di candidati da attrarre, misurare le campagne social ed adattare i messaggi in funzione dei talenti cui parliamo. In questo modo per noi è più semplice andare a vedere se, effettivamente, c’è il cultural fit necessario per entrare in azienda». Un approccio quasi scientifico che cerca di trovare un equilibrio tra la sempre crescente informazione, messa in campo dai candidati nei confronti dell’organizzazione, e la necessità di costruire una community unita e coerente sotto un set di valori che siano in linea con un preciso purpose aziendale. «Il fenomeno della Great Resignation, o comunque di una maggiore attenzione ai valori presente da entrambe le parti – spiega Chimirri –, secondo me è un tema più generazionale che geografico. Per la generazione X, una volta, avere un buon lavoro ben retribuito era essenziale, mentre ai Millennial, adesso, serve proprio un meaningful job, come si diceva prima, che sia collegato a un buon work/life balance, ma che al contempo consenta loro di sperimentare il purpose in action, vivendo una leadership di valorizzazione e supporto non di controllo. Questi non sono più principi negoziabili».

LA TECNOLOGIA AL SERVIZIO DELLA QUALITA’ DI VITA

Un cambiamento strutturale che non può più essere ignorato a nessun livello e che ha cambiato, soprattutto in questi due anni di Pandemia, il modo di pensare delle persone. «Busy is the new stupid – scherza, ma nemmeno poi tanto, il manager –. Alla fine, magari, si è diventati CEO, ma si ha anche sfasciato la famiglia e non si ha prodotto nulla per la società e questo non è più accettabile per le nuove generazioni. I Millennial ormai stanno entrando nella stanza dei bottoni e quello che pensano diventerà presto decisivo. Basti pensare che i nuovi decision maker vivono già oggi modelli diversi. Usano la tecnologia per vivere meglio e non per guadagnare di più o avere un potere fine a se stesso. Una riflessione che, se seguita consapevolmente, dovrebbe portare anche le aziende a rivederne la logica di implementazione. «La tecnologia, in un’azienda globale come la nostra – continua Chimirri –, è un asset essenziale per creare un’unica community realmente interattiva e trasparente, producendo contemporaneamente un’enorme democratizzazione della comunicazione, della trasparenza operativa e organizzativa e dell’espressività. Per i nativi digitali questo è scontato, mentre per altre generazioni si è dovuto intraprendere un percorso di apprendimento per imparare a utilizzare i tool digitali. Il principio, però, rimane quello di assimilarli in maniera corretta per mantenere questa innovazione fondamentale, come deve essere, ma sempre e solo al servizio della crescita e dello sviluppo valorizzante delle persone».

L’EREDITA’ DEL COVID-19: L’IMPORTANZA DELLA CURA PER LE PERSONE

Una linea guida che, ovviamente, va perseguita nell’ottica di questa cura per le persone che, probabilmente, è uno degli insegnamenti e delle rivoluzioni culturali più importanti che il Covid ci ha lasciato in eredità. «Il mental wellbeing – aggiunge il manager – è stato uno dei problemi principali da gestire ai tempi del covid, sia per portare le persone a contribuire all’innovazione dell’azienda, sia alla collaboration. I nostri leader, in questo senso, hanno dovuto acquisire maggiori skill nell’empatia e nella intelligenza emotiva delle persone per capire come ribilanciare i carichi del work/life balance. Proprio per questo, l’esigenza primaria che hanno le aziende oggi è quella di sviluppare una leadership di servizio e caring per creare una cultura di feedback, trasparenza e valorizzazione. Questa è la strada da seguire in modo che le persone si formino e si sentano parte di una community inclusiva, diventando così più forti rispetto alle tentazioni di uscita dalla company. Quello che, infatti, non facciamo e non faremo mai è lavorare su temi transazionali o di retention. Dal nostro punto di vista, il problema da cui deriva la Great Resignation non è professionale, ma emotivo e a un problema emotivo bisogna dare una risposta emotiva. Piuttosto, lasciamo andare le persone, tenendo la porta aperta per dargli la possibilità di riflettere e poi, magari, farli ritornare». Il problema, dunque, sembra essere: come rinforzare questa cultura di leadership e di caring. «La vera sfida sta nella leadership – conferma Chimirri –, i leader fanno la cultura e all’interno della cultura le persone o diventano insoddisfatte e stressate o crescono e migliorano se stesse. La connessione tramite la tecnologia ci espone a trasparenza e democratizzazione. Un uomo solo al comando non esiste più. Ci deve essere una decentralizzazione del decision making schiacciato verso il basso per avvicinarlo sempre di più al cliente. Se non si fa questo, non si potranno più dare risposte alle nuove generazioni e se non si hanno i contenuti per farlo non si va da nessuna parte».
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IL FUTURO DELL'ISTRUZIONE E' EDTECH

Nonostante le molte sfide significative, l’istruzione rientra tra le storie di successo mondiali. Anche i dati lo confermano: nel 1820, ben l’88% della popolazione mondiale era analfabeta, mentre nel 2016 è passata a essere solo il 14%. Nei cinquant’anni compresi tra il 1970 e il 2020, la percentuale di adulti a non aver ricevuto un’istruzione formale è scesa dal 23% a meno del 10%. Nel corso di questa evoluzione dell’apprendimento, il modello educativo è rimasto in gran parte intatto. Ma il progresso tecnologico, unito ad altri sviluppi (tra cui l’impatto di una pandemia globale) stanno cambiando rapidamente il nostro approccio. Qual è dunque il futuro del settore dell’istruzione? Per comprendere quali siano le tendenze dell’istruzione moderna, bisogna innanzitutto prendere in considerazione la crescita demografica. Si prevede che, entro il 2050, la popolazione mondiale crescerà di altri 2 miliardi, raggiungendo i 9,7 miliardi. Nonostante tale aumento, si registra un calo dei tassi di crescita a livello globale a partire dalla metà del XX secolo. In breve, l’invecchiamento della popolazione crea notevoli pressioni fiscali ed economiche sui sistemi pensionistici e sanitari già tesi, soprattutto nelle economie sviluppate. La realtà di vivere più a lungo significa che probabilmente dovremo lavorare di più se vogliamo sopravvivere economicamente.

MIGLIORARE LE COMPETENZE DIGITALI

In questa transizione, l’istruzione costituirà un fattore cruciale. In particolare, i governi e le industrie dovranno garantire che la forza lavoro – fatta di giovani e adulti – sia preparata per le sfide future, intervenendo sull’aggiornamento, la riqualificazione e la riconversione professionale. Sempre più spesso, il contesto in cui avvengono queste attività si trova online. Grazie a Internet, l’istruzione può avvenire ovunque e in qualsiasi momento. Con la crescita demografica mondiale, aumenta anche l’accesso globale a Internet. Entro il 2050, si stima che il 90% della popolazione avrà accesso ai servizi Internet a banda larga, rispetto a circa la metà della percentuale attuale. Le opportunità per il settore dell’istruzione online sono quindi enormi. La didattica da remoto è stata forse catalizzata dalla pandemia; tuttavia, il trend del decentramento dell’istruzione è in atto già da tempo. Le classi virtuali e l’istruzione online hanno registrato un’enorme crescita nell’ultimo decennio, sia nei Paesi sviluppati che in quelli emergenti. Secondo le previsioni, nel periodo 2020-2028 il mercato globale dell’istruzione online crescerà a un tasso di crescita annuale composto del 12,68%. Il settore universitario ha già colto il potenziale dell’offerta di corsi online. I corsi online aperti e di massa (MOOC), per esempio, hanno registrato una forte crescita; tra il 2012 e il 2018, il numero di MOOC disponibili è aumentato di circa il 683% e il numero totale di studenti iscritti è passato dai 10 milioni del 2013 agli 81 milioni attuali. Le università stanno inoltre esaminando nuovi approcci alla didattica mista (che implicano meno tempo nei campus). Per un settore già gravato da pesanti livelli di indebitamento (sia per gli studenti che per le istituzioni) le potenziali opportunità – e minacce – sono significative. Con l’aumento dell’accesso alla didattica online, si prevede che il numero di persone prive di istruzione formale si ridurrà dall’attuale 10% a circa il 5% nel 2050. Per i Paesi a basso reddito o in via di sviluppo, l’apprendimento da remoto offre un accesso e una flessibilità maggiori rispetto all’istruzione tradizionale.

L’APPRENDIMENTO DIVENTA VIRTUALE

Oltre a un miglioramento dell’accesso all’istruzione, anche la qualità e la natura dell’insegnamento si stanno evolvendo. Innovazioni tecnologiche come la realtà aumentata, la realtà virtuale, i sistemi aptici, il cloud computing e l’intelligenza artificiale contribuiranno a rendere l’istruzione molto più virtuale, immersiva e pratica. In particolare, la realtà aumentata e quella virtuale, che al momento sono due tecnologie distinte e si limitano a stimolare la sensazione del tatto e la percezione del movimento, entro il 2050 sono destinate a fondersi, grazie soprattutto ai progressi della tecnologia. I dispositivi aptici stimolano i nostri cinque sensi e la percezione somatosensoriale, per esempio pressione, dolore o temperatura: questi possono fornire agli utenti un’esperienza nel complesso realistica, grazie alla capacità di rilevare l’ambiente circostante in cui vengono utilizzati. Così, gli studenti potrebbero proiettarsi in un determinato periodo o luogo della storia e interagire con quel contesto. Inoltre, la tecnologia avanzata di feedback aptico può fornire una formazione virtuale che sia pratica o fisica, e non più solo teorica, che attualmente è l’unica forma di istruzione online. È molto probabile che, con i progressi dell’intelligenza artificiale e della robotica, le classi possano essere guidate da insegnanti o assistenti virtuali. Anche la modalità di apprendimento potrebbe essere influenzata dalle professioni future e dalle tecnologie emergenti. Di conseguenza, gli studenti dedicheranno probabilmente una parte consistente della loro istruzione all’apprendimento di competenze associate alle discipline STEM, come la robotica e la programmazione. La pandemia ha dimostrato come il lavoro a distanza non influisca sui livelli di produttività, e ha inoltre confermato la necessità di un apprendimento flessibile al fine di ottenere il massimo dall’istruzione. Quando potremo lasciarcela finalmente alle spalle, ci aspettiamo che il modello educativo tradizionale si trovi davanti a molte altre sfide. Lo sfruttamento della tecnologia ci consentirà di adattare l’istruzione alle esigenze individuali: forse abbiamo finalmente trovato i mezzi per garantire che ognuno di noi trovi la sua strada verso il successo.

Settore da monitorare: EdTech

Sul fronte societario negli ultimi anni diverse sono state le quotazioni di società tech in ambito della didattica a distanza. 2U, Chegg, Skillsoft, Tal Education nonché le ultime entranti Coursera, Duolingo e Udemy sono solamente alcuni dei nominativi più celebri. Dopo aver assistito ad un boom, generato dalle restrizioni della pandemia, tutti i titoli scambiano ad oggi al di sotto di tali livelli (o dei relativi valori di inizio quotazione). Tal Education registra la perdita maggiore (-91% da gennaio 2020) causa l’ingerenza politica cinese, volta a limitare il profitto in ambito educativo. Duolingo dall’altro canto registra la minore flessione e il miglior rapporto prezzo/fatturato (P/S). In un quadro di preferenza al valore rispetto alla crescita è normale che tali titoli sono stati scartati, poiché molti di essi scambiano ancora in perdita economica. L’attuale correzione tuttavia potrebbe portare maggiore interesse per ingressi nel settore. Tutto questo nonostante un numero di utenti registrati in continua crescita. Osservando infatti i dati di Coursera e Duolingo si osserva un CAGR del 27% negli ultimi 4 anni per Coursera e del 53% per Duolingo. Numeri di non poco conto. L’analisi, tuttavia, non dovrebbe fermarsi ai soli player attivi nell’educazione a distanza. La dimensione, infatti, del mercato del EdTech e delle classi intelligenti è stata fissata a 88,82 miliardi di dollari nel 2021. Si stima che il mercato aumenterà da 101,64 miliardi di dollari nel 2022 a 319,65 miliardi di dollari entro il 2029 a un 17,8% CAGR durante il periodo di previsione. Secondo la valutazione, gli investimenti rialzisti nelle infrastrutture digitali incoraggeranno le aziende leader ad espandere la loro penetrazione. Le soluzioni hardware intelligenti, come lavagne interattive e progetti interattivi, guadagneranno un notevole successo. Nomi del calibro di Microsoft, Google, Samsung, Cisco, Panasonic, SAP, Apple, IBM e Amazon sono solamente alcuni dei player da monitorare che possono approfittare di questa nuova tendenza congiunturale e che possono continuare a spingere prodotti e servizi essenziali nell’era digitale. Nel frattempo le trimestrali di HP invitano alla cautela. Il mercato potrebbe crescere, ma nel frattempo registra revisioni al ribasso. La domanda di PC, esplosa all'inizio della pandemia, è diminuita con la riapertura delle scuole e soprattutto il sentiment economico in calo fa rivedere la priorità di alcune spese da parte delle famiglie. Questo tuttavia non fa demordere la società a puntare sul mercato, con l’acquisizione di Poly, per ampliare l’offerta con accessori audio e video.
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UN EMPLOYER BRANDING OLISTICO E INTEGRATO NEL SISTEMA AZIENDALE: LA RISPOSTA ALLE ESIGENZE DI MILLENNIAL E GEN Z

«Se penso che per la prima volta ho approfondito il tema dell’employer branding nella mia tesi di laurea, mi vengono in mente due cose: di passi avanti ne abbiamo fatti pochi sul tema (con i dovuti distinguo del caso); gli eventi di questi ultimi anni sono stati invece un grande acceleratore in questo senso». È questa la prima reazione di Vincenzo Di Marco, Direttore Risorse Umane, Qualità e Sicurezza di Pellegrini, alla domanda: cosa significa oggi per lei employer branding? Una risposta dalle due facce - data a margine della presentazione della ricerca "L'Employer Branding nell’era della Great Resignation: attrarre i talenti nel nuovo mondo del lavoro", realizzata da Business International - Fiera Milano, in collaborazione con Indeed e tenutasi il 14 giugno 2022 nel corso del HR Directors Summit all'interno del Business Leaders Summit - che, da una parte, sottolinea l’impatto propulsivo scatenato dalla pandemia nei confronti di un’attività, che già stava crescendo negli ultimi anni, e, dall’altra però, evidenzia quanto lavoro ci sia ancora da fare per raggiungere l’obiettivo. «Forse abbiamo definitivamente compreso che non è solo una questione di “risorse umane”, ma che l’employer branding è un qualcosa che interessa l’azienda nel suo complesso – rincara il manager –. "La differenza la fanno le persone” e “il dipendente al centro” sono alcuni dei claim che sentiamo spesso, ma che altrettanto spesso restano confinati nella carta dei valori aziendali. Quando davvero si mettono al centro le persone, il processo culturale di employer branding si attiva: marketing, comunicazione, operations e top management convergono su linee di azione comuni, capaci di alimentare il valore del brand e il senso di appartenenza».

IL VALORE DELL'ASCOLTO

Un sentimento complesso da creare e che deve chiaramente essere sostenuto da azioni concrete. «La nostra azienda – prosegue Di Marco –, da sempre, è attenta all’ascolto del cliente e, in questi due anni, si è quindi concentrata per portare questa skill, sempre più fondamentale, anche al suo interno. Ascoltando le nostre persone, abbiamo compreso a fondo come le cose siano cambiate. I professionisti non lavorano soltanto per un’azienda, ma per ciò che quell’azienda rappresenta, la sua storia, la sua cultura, il suo sistema di valori e i messaggi che manda al mondo. Le organizzazioni ora devono saper creare un workplace flessibile e rispondente alle diverse esigenze personali e professionali dei lavoratori».

L'ENZIMA DELLA DIGITALIZZAZIONE CHE CAMBIA IL MONDO DEL LAVORO

Il contesto socio-economico d’altronde è stato sconvolto dagli eventi degli ultimi anni e sono cambiate le regole del gioco. «La famosa piramide dei bisogni – commenta il manager –, almeno quelli lavorativi, è stata stravolta. L’enzima di questa accelerazione è la digitalizzazione. In questo scenario si muovono agevolmente i nativi digitali, le cui regole di ingaggio sono molto differenti anche solo dalla generazione che li precede». In tale condizione, però, employer branding e talent acquisition hanno diversi strumenti per essere migliorati. «lo sviluppo delle persone – indica Di Marco –, in questo senso, rimane l’asset principale su cui puntare, rendendo la formazione continua e l’up-skilling del personale un elemento di attraction e una leva strategica dell’employer branding e inserendole all’interno di una strategia di comunicazione capace di raggiungere i potenziali candidati, ma anche gli stakeholder dell’azienda. Una volta fatto questo, però, bisogna anche pensare allo sviluppo del leadership management. Avere dei manager con un giusto grado di leadership aiuta non solo a selezionare la persona, ma anche ad avviare l’employer branding aziendale. In terza istanza, infine, si deve guardare alla capacità di comunicare con uno storytelling efficace sia internamente, sia esternamente, focalizzandosi concretamente su flessibilità, ascolto e work-life balance».

GLI EFFETTI DELLA PANDEMIA

Solo così, secondo il direttore HR di Pellegrini, si potranno ridurre gli effetti del fenomeno della great resignation, i cui dati ormai non possono essere sottovalutati, ma d’altra parte è anche pericoloso darne una interpretazione strutturale. «Dobbiamo partire, infatti, dall’assunto che in Italia il mercato del lavoro non è mai stato particolarmente fluido – avverte il manager –. Detto questo, è chiaro come la pandemia abbia avuto effetti traumatici sulle persone a livello globale, modificando gli equilibri emotivi. In concomitanza - e forse in conseguenza - la dimensione collettiva ha poi contribuito a creare un effetto valanga sulla voglia di cambiamento e sul senso di valorizzazione del presente. In tale contesto aderendo alla visione dello psicologo De Carlo è possibile dire che “il trauma psicologico ha esaltato il concetto del carpe diem”, che può aver prodotto l’azione di cambiare e/o migliorare la propria posizione lavorativa. In tale scenario, la way-out più comoda, anche da un punto di vista sociale è il cambio di lavoro. Vi è poi un secondo fattore da considerare, ossia la dimensione valoriale che anima le nuove generazioni di lavoratori che è disancorata dai sentimenti di fidelizzazione e staticità lavorativa. Fino a qualche tempo fa, infatti, ci hanno insegnato che il sinallagma era basato sulla retribuzione. Oggi, invece, sempre più persone riscrivono il loro personale sinallagma, con la retribuzione che perde posizioni, in favore di elementi apparentemente intangibili, ma sempre più importanti nella valutazione del work-life balance. In questo senso Millennials e Z Generation misurano costantemente l’aderenza dei propri valori e principi ai valori e principi dell’azienda per cui lavorano. In caso di disallineamento la prima risposta è la ricerca di un nuovo lavoro, un nuovo mondo ove poter riconcorrere nuove ambizioni professionali (o fuggire da delusioni) e/o di un ambiente armonico rispetto al proprio sistema valoriale. Sono i valori, l’impatto sociale/ambientale/morale/etico del lavoro svolto, lo scopo e la vision dell’azienda che incidono sulle scelte lavorative e quindi anche su quella di rassegnare le dimissioni. La sfida imposta da questo nuovo ordine di priorità e nuova cultura del lavoro è, quindi, prima di tutto tradurre l’employer branding in un processo olistico ed integrato nel sistema aziendale, che ha inizio con la fase di recruiting e talent acquisition e prosegue il suo corso durante tutto il “life cycle” del dipendente».

IL RIBALTAMENTO DEL PARADIGMA AZIENDA-CANDIDATO

Ci si trova così di fronte a un ribaltamento a 180° del paradigma per cui “io, azienda, scelgo te, candidato”. «Oggi – puntualizza Di Marco –, spesso, è il candidato che sceglie la realtà in cui lavorare o non lavorare. Da anni assistiamo a una modifica del paradigma di ingaggio del lavoratore ed è sempre più chiaro come tale cambiamento sia fortemente influenzati dalla modifica del panel di riferimento. Millennials e generazione z diventano protagonisti, mentre si assiste alla progressiva uscita di scena dei baby boomers, la generazione che ha segnato gli ultimi 40 anni con valori quali la realizzazione personale, il sogno americano, la posizione sociale, la gerarchia, il “vivere per lavorare”. Elementi molto differenti dai valori dei giovani di oggi. Diventa chiaro, quindi, che se la prima fase è dunque quella dell’ascolto e della non banalizzazione di bisogni e dei desiderata il passo immediatamente successivo è quello di non concentrarsi solo sulla dimensione lavorativa, ma di guardare a formazione, crescita professionale e cultura del feedback per tradurre la cura del benessere organizzativo e delle persone in azioni e iniziative concrete, ben targettizate e in sintonia con i core value dell’azienda».

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EMPLOYER BRANDING NELL’ERA DELLA GREAT RESIGNATION: ATTRARRE I TALENTI NEL NUOVO MONDO DEL LAVORO

Storicamente la mobilità del mercato occupazionale di un Paese ha un valore positivo per la salute economica dello stesso. La capacità di cambiare posto di lavoro dei professionisti di una nazione, infatti, denota innanzitutto l’opportunità di farlo e, poi, anche la presenza concreta di migliori situazioni professionali potenziali in cui inserirsi e che, naturalmente, contribuiscono alla crescita economica personale e sociale dell’intero sistema Paese. Questi aspetti basilari di economia, però, ai tempi del Covid-19, purtroppo denotano anche molto altro. Se, infatti, è indubbio che nel 2021 il comparto finanziario italiano abbia vissuto momenti positivi, anche dovuti al rimbalzo strutturale causato da una ripartenza produttiva ferma da mesi, dall’altra parte, è altrettanto vero che il tasso di dimissioni ha avuto un’evoluzione così forte da far rilevare 2 milioni di dimissioni solo nel 2021 (fonte: Nota trimestrale delle tendenze dell’occupazione, Ministero Del lavoro e delle politiche sociali, 2021), che sottolineano come il fenomeno non riguardi solo una maggiore mobilità delle posizioni professionali e non sia dovuto esclusivamente alle riorganizzazioni aziendali dettate dalla digital transformation e dalla pandemia, ma inizino a seguire quel trend tutto americano denominato “Great Resignation” . A conferma di questo, infatti, secondo gli ultimi dati dell’Osservatorio del Politecnico di Milano, il 44% delle aziende del Bel Paese ha perso la sua capacità di attrarre nuovi talenti, vivendo un turnover di oltre il 73% negli ultimi dodici mesi e con il 45% degli attuali occupati italiani che dichiara di aver cambiato o di voler cambiare lavoro nei prossimi 18 mesi. Numeri forti, questi, che inevitabilmente sottolineano un malessere da non sottovalutare, ma anzi da comprendere a fondo per poterlo gestire, arginare e magari ridurre. Anche perché, come indicato da una recente analisi di PwC, il 45% della Gen Z e il 47% dei dipendenti Millennial rinuncerebbe al 10% o più dei propri guadagni futuri per l’opportunità di lavorare da remoto, evidenziando così come la criticità per le nuove generazioni di professionisti non sia rappresentata dal salario, come appariva in passato, ma da un set di valori e criteri completamente differenti.

UN NUOVO SET DI VALORI GUIDA IL LAVORO DEL FUTURO

Quali sono, però, questi fattori distorsivi che si trasformano in motivi di insoddisfazione? Come evitare che sopraggiungano? Come ridurre il loro impatto qualora si presentino? Tutte domande a cui Business InternationalFiera Milano, in collaborazione con Indeed, ha cercato di rispondere attraverso i risultati della ricerca “Employer Branding nell’era della Great Resignation: attrarre i talenti nel nuovo mondo del lavoro”, realizzata con il commento e l’analisi di Stefano Faccioli, Head of Organizational Development, Training & Change Management della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli ed Adjuct Professor di Human Resources & Competency Management presso l’Università La Sapienza. Un report, presentato in occasione della nuova edizione dell’HR Director Summit (la manifestazione tenutasi presso il Museo Diocesano di Milano, il 14 e 15 giugno 2022, all’interno di Business Leaders, la settimana di eventi dedicata ai C-Level del futuro), di cui nelle prossime settimane approfondiremo le principali evidenze emerse e che ha l’obiettivo di fare chiarezza sulle nuove dinamiche del mondo del lavoro e sul grande valore che sta acquisendo, anno dopo anno, il segmento dell’employer branding, non solo in termini di talent acquisition, ma anche di brand reputation e soprattutto talent retention.

UNA RIVOLUZIONE DA CUI NON SI POTRA’ TORNARE INDIETRO

«Le aziende oggi si devono rendere conto – commenta Faccioli – che la rivoluzione innescata dal Covid-19 è al pari di quella introdotta da internet alla fine degli anni ’90, che poi diede vita a una nuova serie di aziende digitali in grado di portare con sé una nuova cultura del lavoro. Allo stesso modo, le aziende, che potremmo definire “native covid”, stanno già producendo un cambio strutturale delle abitudini e delle attitudini lavorative su scala globale e questa è una trasformazione radicale da cui non si potrà più tornare indietro». Un cultural change che va interpretato con attenzione e che deve porre al centro un focus cruciale sulla cura delle persone, sempre più strategica per il futuro sviluppo del business. «I talenti di oggi – aggiunge Ilaria Caccamo, head of sales di Indeed Italia - cercano prima di tutto un luogo di lavoro stimolante e sano. Un ambiente piacevole, con la cultura della gentilezza e della flessibilità dell’orario, che miri all’effettiva realizzazione dei progetti e alla crescita delle persone, non al controllo del tempo lavorato. Uno spazio professionale che sia inclusivo e sia inserito all’interno di logiche e dinamiche di condivisione sempre più orizzontali e meno gerarchiche. Il futuro delle aziende risiede nel rispetto e nella fiducia». Un obiettivo che, in Italia, potrebbe richiedere ancora del lavoro da fare, ma che già propone anche nel nostro Paese alcuni validi esempi raccolti anche net report per offrire a tutti gli interessati una visione prospettica reale di come si stanno muovendo le aziende tricolore e che vi proponiamo di leggere, scaricando la ricerca al link indicato qui sotto.




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Human Resources

GIGANTINO (VMWARE): DALLA GEN Z AI BABY BOOMER, NELL'ERA POST-COVID L'IMPORTANTE SONO LE CONNESSIONI

Quando si parla del modo in cui lavoriamo nella nuova era del lavoro ibrido, si deve necessariamente considerare non solo la tecnologia che lo consente, ma anche la cultura che lo definisce. Oltre a investire nelle più recenti tecnologie di esperienza digitale per supportare i dipendenti ovunque scelgano di lavorare, le organizzazioni devono infatti oggi anche ripensare la cultura di una forza lavoro che non è più confinata in un ufficio.

Un tema, questo, molto delicato e di grande attualità che abbiamo voluto approfondire attraverso le parole e l'esperienza di Raffaele Gigantino, Country Manager VMware Italia, anche in vista della prossima edizione di HR Business Summit, l'evento dedicato al mondo delle risorse umane che si terrà il prossimo 29 e 30 novembre 2022 all'interno di Business Leaders Summit, la grande manifestazione dedicata ai C-Level del futuro, organizzata da Business international - Fiera Milano e prevista, nella sua edizione autunnale, dal 21 novembre all'1 dicembre 2022 a Roma, presso gli spazi di Palazzo Rospigliosi. "Se la decisione tra il lavoro ibrido permanente e il ritorno in ufficio non fosse già abbastanza difficile- spiega il manager -, i datori di lavoro devono anche considerare i punti di vista diversi e spesso opposti dei dipendenti e devono farlo bilanciando una serie di questioni culturali, aziendali ed economiche come la produttività, la destinazione di uffici vuoti e costosi e il modo per aumentare la collaborazione o ridurre il senso di isolamento".

Non sempre, però, c'è accordo all’interno dei gruppi di età differenti su dove e come le persone vorrebbero o dovrebbero lavorare, e questo porta a grandi differenze nell'esperienza e nelle prestazioni. "Secondo una nostra recente ricerca dal titolo “The Virtual Floorplan: New Rules for a New Era of Work”- prosegue Gigantino -, dall'inizio della pandemia, il 62% dei giovani tra i 18 e i 25 anni ha ottenuto una promozione, contro appena il 13% delle persone con più di 56 anni. Le aziende devono rispondere a queste differenze nel contesto di obiettivi più ampi e di aspirazioni volte a rendere l'ambiente di lavoro più inclusivo e, anche, flessibile". Dare vita a un processo come questo, però, non sembra essere così semplice. "Il modo in cui le organizzazioni scelgono di affrontare questo ostacolo generazionale e la differenza di visione - sottolinea il manager - sarà uno dei principali fattori che decideranno chi avrà successo e chi no nella nuova era del lavoro ibrido".

L'IMPORTANZA DELLE CONNESSIONI

Quali sono, quindi, queste differenze e qual è l'impatto sulle aziende che stanno già lottando per accedere alle competenze critiche in seguito alle "Grandi Dimissioni" e alle "Grey Resignation", di cui si parla meno ma che non hanno meno impatto? "Il divario più netto tra le opinioni generazionali - indica Gigantino - si riscontra nel modo in cui i gruppi di età considerano lo sviluppo delle connessioni personali. Dalla nostra ricerca è emerso che il 70% della Generazione Z (18-25 anni) ritiene che il cambiamento delle circostanze lavorative abbia migliorato i legami personali con i colleghi, mentre solo il 30% dei Baby Boomers (56+ anni) può dire lo stesso". Forse si tratta semplicemente di ciò a cui sono abituati: i Baby Boomer hanno lavorato in ufficio per tutta la loro carriera lavorativa, ma il mantenimento e la creazione di legami per promuovere team collaborativi devono essere al centro dell'attenzione dei datori di lavoro. "Le connessioni non solo sono positive dal punto di vista dell'apprendimento e della socialità - conferma il manager -, ma contribuiscono anche ad aumentare il rendimento del lavoro e i livelli di performance del team e di coinvolgimento dei dipendenti. Ecco perché, secondo il VMware Forrester Digital Employee Experience Report 2022, il 60% delle aziende a livello globale sta dando priorità a un investimento medio di 500.000 dollari in una piattaforma digitale completa per l'esperienza dei dipendenti nei prossimi 24 mesi, e l'80% cita la produttività dei dipendenti come uno dei principali fattori alla base dell'investimento. I lavoratori intervistati per la BCG COVID-19 Employee Sentiment Survey che si sono sentiti meno connessi socialmente con i colleghi durante la pandemia sono stati meno produttivi nelle attività di collaborazione rispetto a prima della pandemia e solo il 30% dei Baby Boomers ritiene che la produttività dei dipendenti sia aumentata con l'introduzione del lavoro a distanza". Risulta chiaro, quindi, come, indipendentemente dal fatto che siano in ufficio o che lavorino altrove, i datori di lavoro devono considerare come offrire maggiori opportunità di connessione sociale tra le generazioni. "Esempi di questo nuovo approccio, in realtà, già esistono - commenta Gigantino -. Basti pensare, ad esempio, che il fondatore della banca britannica Monzo, Tom Bloomfeld, ha recentemente annunciato di aver investito in un'applicazione per il benessere per superare la solitudine del lavoro ibrido e aiutare a creare connessioni tra colleghi basate su interessi extra-lavorativi".

ACCORDO GENERAZIONALE SUL VALORE DELLE PRESTAZIONI

Sebbene i gruppi generazionali possano essere divisi sulle loro esperienze di lavoro a distanza, però, tutti sembrano essere d'accordo su due cose importanti: in primo luogo, il fatto che lavorare in un ambiente remoto o distribuito abbia portato i dipendenti a essere valutati più in base alle prestazioni e meno in base a parametri tradizionali come il tempo trascorso in ufficio. Il secondo punto riguarda le capacità di leadership necessarie per creare team ad alte prestazioni in un ambiente remoto o distribuito. "Tutti - aggiunge il manager - riconoscono l’importanza delle capacità di comunicazione, seguite dalla capacità di fidarsi dei dipendenti, dalla fluidità digitale su una serie di piattaforme e dall'adattabilità a nuove modalità di misurazione delle prestazioni dei dipendenti". La vera sfida, così, diventa saper abbracciare la flessibilità per supportare tutti i dipendenti. "Uno dei tratti distintivi del lavoro ibrido - prosegue il manager - è la flessibilità. Per questo motivo, anche se possono esserci dei divari di esperienza tra le diverse generazioni di dipendenti, i datori di lavoro devono cogliere l'opportunità di colmare questi divari durante la transizione verso il nuovo modello di lavoro ibrido, per assicurarsi di costruire una forza lavoro realmente inclusiva e diversificata. Le imprese oggi operano in un mercato del lavoro difficile. Riuscire a trovare un equilibrio tra le esigenze di diversi tipi ed età di lavoratori sarà fondamentale per trattenere e attrarre nuovi talenti - giovani e meno giovani - in azienda. Sebbene trovare questo equilibrio possa sembrare difficile da raggiungere, la ricerca mostra che c'è una correlazione molto importante che, se risolta, avrà un effetto positivo a catena. Si tratta della correlazione tra l'aumento dei legami personali e il conseguente aumento della produttività e delle prestazioni del team".

LA VALORIZZAZIONE DELLA PERSONA ATTRAVERSO LA TECNOLOGIA

Sebbene ciò sia particolarmente vero per le generazioni meno giovani, le connessioni di tutte le età sono ciò che aiuta le persone (e l'azienda) a prosperare. "Nella nuova era digitale e ibrida - sottolinea Gigantino - i dipendenti vogliono sentirsi apprezzati, connessi, sostenuti e incoraggiati, indipendentemente da dove e come lavorano. Per i datori di lavoro, questa è un'opportunità per evolvere la cultura della propria forza lavoro in modo da prendere in considerazione le esigenze di ogni generazione e diventare più forti, più competitivi e un posto di lavoro migliore per tutti. E sfruttare le tecnologie per l'esperienza digitale che possono trasformare la "forza lavoro ovunque" in una realtà ricca di contenuti".
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