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Instagram aggiunge il Codice Embed per Foto e Video

Una manciata di giorni fa abbiamo parlato di una grande mancanza di Instagram: l’impossibilità di incorporare foto e video su altri siti. Come saprete, infatti, il portale non permetteva agli utenti di recuperare il codice embed. A tal proposito vi abbiamo consigliato un’utile applicazione web, Embed Instagram, che risolveva il problema in pochi click. Lo strumento consigliato è divenuto ormai inutile, Instagram ha finalmente aggiunto la possibilità di recuperare il tanto desiderato codice.

Raggiungiamo un Profilo Web della community e clicchiamo sulla foto/video che vogliamo incorporare altrove. Nella solita schermata che mostra il contenuto sarà presente anche un nuovo tasto (posto sotto il cuore e l’icona dei commenti). Cliccando su questa piccola freccia, si aprirà una finestra che includerà il codice Embed dell’elemento. Basterà cliccare il bottone verde “Copy Embed Code” per copiare automaticamente il contenuto.

Tramite questo codice, dunque, potrete portare in giro per il web sia le immagine sia i filmati di Instagram.

L’azienda, dunque, ha soddisfatto la richiesta degli utenti proprio nel periodo in cui lo strumento gratuito per generare embed stava prendendo piede. Sarà solo un banale caso oppure questa risorsa ha fatto svegliare il noto Instagram?

Non abbiamo una precisa risposta e probabilmente non ci interessa nemmeno averla, l’importante è l’aggiunta della nuova funzione che ci consente in un paio di click di ottenere il codice.

Per tutelare la privacy evidenziamo che il codice Embed sarà disponibile solo ed unicamente per i contenuti pubblici. Se una foto o un video risultano privati non potranno essere portati in giro per il web.

Fonte: www.geekissimo.com

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Visiwa, il marketplace delle infografiche italiane

Chiunque può pubblicare la propria infografica e venderla tramite il sito, che da oggi mette in contatto le aziende italiane con oltre 300 designer

È on line da oggi Visiwa.net, prodotto editoriale ideato da Paolo Conti, Ceo di Loft Media Publishing, che ha l’obiettivo di diffondere anche in Italia l’uso delle infografiche. Conti definisce Visiwa un “ social media” anche se in realtà si tratta di un aggregatore, o meglio di un marketplace per designer e aziende. Da una parte infatti i creativi possono utilizzare la piattaforma per diffondere le proprie creazioni, mentre dall’altra le aziende hanno la possibilità di trovare persone competenti per realizzare infografiche capaci di generare traffico per il proprio sito, o acquistare direttamente traffico. “L’abbiamo chiamato social media perché è un media sociale nell’ambito del crowd journalism” racconta Conti.

Attraverso Visiwa infatti chiunque può pubblicare contenuti che prima di essere diffusi verranno verificati dallo staff redazionale. “ Recentemente è stato stimato che l’80 per cento delle infografiche in circolazione contengono dati faziosi e poco legati alla realtà, per questo abbiamo deciso di verificare tutto quanto pubblicheremo” ci ha spiegato Conti. A differenza di Visually, principale competitor e leader a livello internazionale nel settore, Visiwa ha sviluppato uno strumento in grado di bloccare il download dell’infografica, per cui chi la vuole inserire in qualunque contesto si trova vincolato a fare l’ embed direttamente dal sito, che fornisce l’immagine tramite i propri server. Visiwa, ancora prima di lanciare, ha già coinvolto 300 designer e 28 ricercatori, con tre aziende che hanno già commissionato lavori. Per approfondire il progetto abbiamo raggiunto Conti.

Cosa vuol dire Visiwa e cosa fate esattamente?

“È il nome di un’isola tropicale che ci piaceva. Ricorda bene l’aspetto visivo ed è abbastanza startupparo. Il nostro obiettivo è cavalcare l’onda del mercato delle infografiche che anche da noi sta crescendo, ma non ha ancora completamente sfondato per la mancanza di prodotti localizzati. Aziende, istituzioni e giornali italiani hanno infatti bisogno di infografiche in italiano e fatte da italiani perché solo la gente del posto può sapere qual è l’immagine o la parola adatta per riassumere tante cose in poco spazio. Le infografiche stanno esplodendo anche in Italia perché le aziende stanno scoprendo che sono l’esatto opposto della pubblicità e che legare brand a contenuti è una strada estremamente efficace per promuovere il proprio prodotto. Ogni nostra infografica contiene un link al creatore e all’azienda che l’ha commissionata, laddove questa sia stata appunto commissionata”.

Vuoi dire che chiunque può caricare la propria infografica?

“Non proprio: chiunque può candidarsi per diventare un nostro designer e pubblicare liberamente le proprie infografiche. Vogliamo fare una selezione all’ingresso per essere sicuri di diffondere solo materiale di qualità. Se un’infografica genera traffico, un’azienda può scegliere di comprare quel traffico e aggiungere il proprio link al prodotto. Quando vendiamo il traffico generato dividiamo il ricavo al 50 per cento con il designer. In autunno poi vogliamo anche realizzare vere e proprie inchieste che saranno pubblicate come infografiche”.

Puntate solo al mercato italiano?

“Inizialmente sì. Attualmente il leader del settore è Visually e per quanto riguarda l’inglese è irraggiungibile. Noi vogliamo diventare leader in Italia in quattro mesi. Poi apriremo in Brasile e Russia, mercati molto grandi dove Visually è assente, e punteremo sempre sulla localizzazione. Quando avremo una massa critica sufficiente proveremo ad affrontare il mercato inglese. Siamo convinti che la differenza la faccia la localizzazione e che saremo pronti in un paio di anni. È estremamente difficile stimare quanto valga il mercato delle infografiche, ma più in generale puntiamo al settore della pubblicità on line perché è qui che le infografiche si sovrappongo e sovvertono in maniera radicale il rapporto fra chi produce qualcosa e chi lo dovrebbe comprare”.

State cercando un investimento?

“No, abbiamo investito circa 30mila euro di tasca nostra e per ora non abbiamo bisogno di altri finanziamenti”.

Fonte: Wired.it

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Executive Summary CEO Summit 2013

Nella cornice dell’Hotel Principe di Savoia di Milano si è svolta la prima edizione del CEO Summit, organizzato da Business International, divisione di Fiera Milano Media. Una giornata in cui una parola è stata più ricorrente di altre: “sfida”. In un contesto economico globale iper-competitivo ed estremamente mutevole, le aziende e i loro leader devono saper individuare strategie e modelli di business capaci di sfidare la crisi e plasmare il futuro. CEO Summit ha messo insieme le teste pensanti e le storie virtuose di alcune delle più importanti eccellenze aziendali italiane e internazionali, con l’obiettivo di ispirare idee, domande e, soprattutto, risposte efficaci. Organizzazione aziendale e internazionalizzazione, leadership e innovazione: ecco i temi della giornata, toccati nell’introduzione di Vincenzo Perrone, Docente di Organizzazione Aziendale e Prorettore alla Ricerca all’Università Bocconi. Come può il CEO favorire la crescita e la competitività dell’impresa? Anzitutto, risponde Perrone, non restando con le mani in mano: “Il mondo, gli imprenditori, le imprese si dividono in due: quelli molto impegnati a guardarsi l’ombelico e quelli che puntano a diventare l’ombelico del mondo”. I Paesi emergenti decollano, la classe media nel mondo cresce, e in Italia stiamo immobili perché non riusciamo a vedere oltre la crisi. Ecco dunque i consigli del Docente: 1) se non avete un vantaggio competitivo, smettete di competere; bisogna essere unici, migliori, redditizi 2) siate resilienti, ossia capaci di deformarsi e tornare come prima; passate attraverso la crisi e uscite più forti, migliori, con le idee più chiare.

A seguire, la Tavola Rotonda sui business models di successo, che ha coinvolto Francesco Casoli (presidente di Elica), Tommaso Galbersanini (CEO Il Filo dei Sogni), Luca Majocchi (CEO Emilceramica), Alessandro Cremonesi (CEO Jil Sander), Marina Salamon (CEO Altana). Esempi d’eccellenza e creatività italiana, che hanno dispensato i loro “ingredienti segreti” anti-crisi: amore per il consumatore, innovazione continua, scelta di un segmento di lusso, costruzione di un ecosistema aziendale creativo. Per tutti, due costanti: una grande passione, e l’internazionalizzazione di un business che non può più limitarsi al solo mercato italiano.

Proprio quest’ultimo tema è stato il punto focale della successiva Tavola Rotonda, introdotta e moderata da Carlo Alberto Carnevale Maffè, Docente di Strategia e Politica Aziendale in Bocconi. La competizione globale ha accresciuto la complessità del ruolo del CEO, il quale – secondo Maffè – non avendo più le core competences sotto controllo, deve farsi portatore di edge competences: diventare “scultore” di strategie, “filosofo” del valore sospeso tra transazioni economiche e relazioni, “banchiere” dell’integrità aziendale. Per guidare l’azienda nell’oscurità di questo momento economico la stella polare resta sempre l’innovazione. Alcune corporation ne hanno fatto una bandiera, come Microsoft, presente alla tavola rotonda con Silvia Cambiani (Chief Operation Officer), e Google, di cui è intervenuto l’Amministratore Delegato Italia Fabio Vaccarono. Un’innovazione declinata in forma digitale quindi, ma anche dal punto di vista organizzativo: hanno partecipato infatti Renato Capanna, Consulting Director MEGA, e Enrico Pazzali, Amministratore Delegato Fiera Milano. Innovare è un imperativo, ribadito da Roger Abravanel nel suo intervento: “Italia, o cresci o esci!”. Il CEO deve rendere l’azienda un incubatore di talenti: solo così riusciremo a cogliere le “eccezionali opportunità che il Paese avrà nei prossimi 4-5 anni”.

I grandi leader sanno prendere grandi decisioni. Come l’acquisizione di Avio da parte di General Electric, raccontata dal Country CEO Sandro De Poli, o anche solo il saper accettare i fallimenti e incentivare l’autonomia del personale – temi degli aneddoti del Country Manager Facebook Luca Colombo. “Cos’è la leadership?”, chiede il moderatore Arturo Artom nella Tavola Rotonda finale. “Leadership è capacità di interpretare il nuovo senza perdere il nocciolo duro della propria identità aziendale”, risponde Umberto Bussolati Dell’Orto, Senior Partner Spencer Stuart. Per Marcello Veneziani, editorialista de Il Giornale, alle aziende italiane serve una leadership distintiva, capace di andare controtendenza: puntare sulle nostre peculiarità, miscelando il patrimonio del Brand Italia con la capacità di innovarlo. Una sfida irrimandabile che – non essendo stata accolta dalla politica – è già entrata nell’agenda di manager e imprenditori.

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CEO Summit 2013: La sfida dell’internazionalizzazione come risposta alla crisi

“Italia, cresci o esci!”, è il monito del guru del merito Roger Abravanel, ospite del CEO Summit 2013 organizzato da Business International, divisione di Fiera Milano Media. “Ogni anno un terzo degli italiani meglio formati escono dall’Italia, e il nostro Paese si posiziona dopo il Gabon nella classifica della giustizia civile. Va ripensato totalmente il mercato del lavoro, la scuola e la formazione”. Nonostante i deficit cronici della Penisola, Abravanel ritiene che “l’Italia avrà delle opportunità eccezionali nei prossimi 4 o 5 anni”.

Opportunità che, con un mercato interno asfittico, proverranno quasi esclusivamente da mercati stranieri  – in particolare quelli emergenti delle nuove classi medie in Asia, America del Sud e Africa, ricordati da Vincenzo Perrone, Docente di Organizzazione Aziendale e Prorettore alla Ricerca all’Università Bocconi. Se la competizione è sempre più globalizzata, anche per piccole e medie aziende, la risposta a livello di business è una: internazionalizzarsi. Fabio Vaccaro, CEO Italia Google, è uno dei tanti che, nella giornata di dibattiti all’Hotel Principe di Savoia, hanno sottolineato come il Web consenta anche a micro-realtà locali di affacciarsi facilmente al mercato globale: “le piccole e medie aziende quando sposano internet hanno vantaggi documentati. Internet ti permette di abbattere i costi, di avere visibilità e di contattare i consumatori nel mondo.

Al Web nei prossimi anni si aggiungeranno cinque miliardi di persone: il digitale può potenzialmente fa uscire le aziende italiane dalla crisi”. Certo, essere online non basta per competere su scala globale: il fallimento è sempre dietro l’angolo – come quello celebre di Nokia, ricordato nel suo intervento al Summit da Arturo Artom, fondatore del Forum della Meritocrazia e animatore della rete di imprenditori Confapri: “una grande multinazionale perde 6 mesi di tempo, e finisce per dover fare una rincorsa che non finisce mai”. Sempre Artom ha messo l’accento sugli esempi virtuosi di chi, mettendosi in gioco fuori dall’Italia, ce l’ha fatta: come Cavanna, industria della Valsesia “divenuta leader internazionale nel settore dei sistemi di confezionamento, con impianti in 5 continenti”.

Di esempi simili, alla prima edizione del CEO Summit, ne abbiamo ascoltati diversi: il primo è quello raccontato in prima persona da Tommaso Galbersanini, Amministratore Delegato appena trentenne di Il Filo dei Sogni una piccola realtà tessile e manifatturiera che negli ultimi anni ha letteralmente spiccato il volo. Il Filo dei Sogni non crea semplici lenzuola e asciugamani: puntando su un target di nicchia e su una continua innovazione produttiva è arrivata a inventare tessuti in fibra di legno e fibra di latte – utilizzati soprattutto per gli interni di Jet e Yacht di superlusso – e persino a “tessere” la fibra ottica.

Proprio quest’ultima invenzione, il tessuto Luminex®, ha permesso a Galbersanini di farsi un nome a livello internazionale: “l’architetto di Abramovich ha visto il tessuto in fibra ottica in fiera a Dubai, e ci ha voluto per l’arredamento dello Yacht del miliardario russo”. L’innovazione non è solo nel campo del design, ma si sta avvicinando sempre di più a nuove tecnologie e domotica: “con l’I-Pad puoi cambiare il colore dello specchio o del cuscino”, ha spiegato il CEO. Il quale deve all’internazionalizzazione il successo della sua impresa: “In Italia siamo sottocapitalizzati, all’estero tutti si chiedono perché non ho ancora trovato un investitore”.
 

Simile è la storia di Luca Majocchi, Amministratore Delegato di Emilceramica: “qualche anno fa l’azienda era quasi da portare in tribunale, ora facciamo la migliore annata di sempre. Nel 2011 ci siamo spostati verso il lusso, ripensando la strategia. Abbiamo aumentato i prezzi mediamente del 25%, creando prodotti molto belli, e oggi facciamo l’87% del fatturato all’estero, e siamo in crescita. Come fai a portare a casa soldi dalle piastrelle in Italia? Soltanto col lusso, puntando ai mercati stranieri”.
 

Accettare la sfida della competizione globale e vincerla, senza subirla: questa è la morale anche dell’esperienza di Enrico Pazzali come Amministratore Delegato di Fiera Milano. Come nei due esempi precedenti, internazionalizzazione fa rima con innovazione – in questo caso organizzativa: “abbiamo ridotto le società Fiera Milano da 16 a 3 e ridotto il numero di dipendenti di 350 unità, cambiando e riducendo la classe dirigente e, soprattutto, iniziando un percorso di internazionalizzazione” – ha raccontato Pazzali alla platea del CEO Summit. “Non dobbiamo portare gente qua in Italia, dobbiamo portare fiera nel mondo”, è il mantra che ha guidato l’attività del manager; il quale ha ripercorso le tappe di un cambiamento difficile ma, alla lunga, vincente: “negli anni ci siamo fatti accecare da un mercato importante come quello italiano, siamo diventati la prima fiera del mondo, e poi ci siamo un po’ addormentati mentre i tedeschi innovavano.

Nel 2009 abbiamo mandato tre ragazzi in giro nel mondo a fare dossier e siamo passati da 0 a 80 fiere nel mondo. L’Italia non cresce, l’Europa non cresce, dobbiamo guardare altrove. I tedeschi erano gli unici organizzatori che portavano le imprese a Shangai. A Shangai noi abbiamo trovato il Console del nostro Paese e le rappresentanze italiane sinergici al nostro lavoro, e siamo riusciti a scalzare i tedeschi. Poi tornando in Italia, tutto è diverso. E’ più facile fare sistema all’estero, c’è meno burocrazia, e se ci concentriamo sulle nostre competenze almeno lì ce la facciamo”.
 

A volte l’internazionalizzazione può essere aiutata da una multinazionale: è il caso di General Electric, ricordato dal CEO Italia Sandro De Poli. “L’ingresso nel mercato italiano ci ha permesso di valorizzare le competenze nel territorio. General Electric dà lavoro a molte persone in Italia, e ha scoperto un indotto di grandissimo talento. Tante aziende nel territorio nazionale stanno producendo per noi e noi le stiamo aiutando a internazionalizzarsi”. Le prospettive per chi si spinge oltreconfine, secondo De Poli, sono buone: “in questi anni di profonda crisi, i numeri dell’export della piccola-media impresa italiana sono sempre cresciuti. Dimostrazione di lungimiranza, di voglia di fare, di competenza”.
 

Il successo delle aziende italiane nell’arena della competizione globale è dovuto in parte al capitale simbolico veicolato dal “Brand Italia” – il quale dipende anche e soprattutto dall’immagine che si portano a casa i turisti stranieri nel nostro Paese. Elena David, Amministratore Delegato Una Hotels & Resorts e Presidente AICEO, nel suo intervento ha voluto mettere l’accento proprio su questo punto: “io penso che il turismo abbia la stessa mission di Google; sia cioè un volano che dovrebbe consentire l’espressione dell’italia eccellente, del lifestyle italiano”.

Non sempre, però, è così: per quale motivo? Arturo Artom l’ha chiesto alla platea durante la tavola rotonda “La leadership oltre la crisi”: “perché non decolliamo? Perché gli inglesi fanno i musei con gli scarti di Pompei e incassano più di Pompei?”.

La risposta di Marcello Veneziani, editorialista de Il Giornale, è stata senza appello: “quando ho proposto una mostra simile a quella organizzata dal British Museum al Comune di Roma non si è fatto niente, per paura di puntare sulle nostre irripetibili specificità”. Invece, per Veneziani, è proprio il patrimonio storico, culturale, tradizionale italiano il nostro asso nella manica per vincere la sfida della competizione globale sui mercati esteri: “nell’epoca della globalizzazione, anche le piccole conoscenze e tradizioni possono essere la motivazione in più per una ripresa che sembra impossibile. Abbiamo un patrimonio: mettiamolo a frutto!”.  

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CEO Summit 2013: Strategie e leadership nell’impresa di successo

“Il mondo, gli imprenditori, le imprese si dividono in due: quelli molto impegnati a guardarsi l’ombelico e quelli che puntano a diventare l’ombelico del mondo”. L’ha detto Vincenzo Perrone, Docente di Organizzazione Aziendale e Prorettore alla Ricerca all’Università Bocconi, durante la prima edizione del CEO Summit – organizzato da Business International, divisione Fiera Milano Media. Per diventare “l’ombelico del mondo” servono business model efficaci, e leader abili a concretizzarli: due temi, strategie e leadership, centrali nel dibattito del CEO Summit 2013, su cui vale la pena di soffermarsi in questo Focus.

Vincenzo Perrone ha inaugurato la giornata con una provocazione: per uscire dalla crisi, la prima strategia da adottare è “guardare oltre”. “Dobbiamo uscire da questa nuvola nera che si siamo costruiti, che alimenta un clima che fa male al Paese e che all’estero non c’è”. I numeri del mondo, in effetti, parlano chiaro, e mostrano interessanti opportunità strategiche (Video: http://www.youtube.com/watch?v=Z4WGjHWY1UM. Fonte: Nielsen): i mercati emergenti crescono in tutto il globo, così come la classe media e il reddito spendibile da parte di categorie sottovalutate in fase di communication design (come, ad esempio, gli ispanici negli USA). Al contempo la digitalizzazione prosegue ovunque senza sosta (impressionanti i dati della diffusione del mobile payment in Cina e Kenya) – e, come ha ricordato nel suo intervento il CEO Italia di Google Fabio Vaccaro, in questo ambito l’Italia deve e può fare di più: soltanto il 17% delle piccole-medie imprese italiane ha una presenza qualificata su internet, contro Il 30% delle spagnole. Va aggiunto inoltre il cambiamento rapidissimo della composizione socio-demografica del mercato – con un fortissimo aumento percentuale dei consumatori over50 in America Latina, Stati Uniti, Cina, e le donne che divengono sempre più importanti per potenziale di spesa.

Aldilà dei dati, ha sottolineato il Docente, ciò che manca al Belpaese è l’approccio giusto: le opportunità ci sono, basta vederle. “La parola crisi deriva dal greco, dal verbo giudicare” – ha ricordato Perrone. “E’ il momento di giudicare, distinguere. Possiamo uscire da questo clima in cui ci siamo infilati e vedere realtà che si muovono su una logica diversa, che hanno capito dove i consumatori globali sono e quali sono le possibilità di crescita per le aziende? Quando è arrivato Monti, a novembre, con lo Spread a 500, stavate chiudendo i vostri bilanci. In quel momento il bilancio totale di tutte le aziende italiane sopra i 100milioni di euro, che valgono il 17% del Pil, stava crescendo del 12,45% rispetto all’anno precedente. Le aziende erano solide dal punto di vista finanziario e con ricavi crescenti. Bisogna discriminare, affinare lo sguardo. Quante banche hanno ancora la capacità di capire se un’azienda cresce, è solida o meno? Il governo, quando parla di politica industriale, di cosa sta parlando? Conosce le esigenze di un’azienda internazionale o di una start-up? E forse, anche Confindustria e ì sindacati questa capacità di giudizio la dovrebbero sviluppare”.
 
Secondo Vincenzo Perrone è il momento del “ritorno ai pesi”. Il che significa sostanzialmente due cose: “1) se non avete un vantaggio competitivo, smettete di competere; non c’è modo di conseguire un vantaggio competitivo sostenibile facendo esattamente quello che tutti gli altri fanno, nello stesso modo. I profitti sono il sovra-prezzo che un cliente è disposto a pagare per una differenza percepita di valore, dunque bisogna essere differenti (in meglio); 2) siate resilienti. La resilienza è la proprietà di un materiale di ricevere uno shock, deformarsi e tornare come prima. Passate attraverso la crisi e uscite più forti, migliori, con le idee più chiare. E’ la proprietà che ci ha consentito come specie di sopravvivere”. Quello che conta oggi è la capacità di adattare le tecniche al mercato, sapendo passare da un’ondata tecnologica all’altra e mettendo sempre al centro il cliente. “Chi soffre è chi non è capace di produrre idee e non è ben posizionato sul mercato”, è la sintesi di Perrone, il quale ha concluso la sua analisi non con una risposta, ma con quattro domande rivolte ai CEO del futuro: “1) siete davvero competitivi sul mercato? 2) riuscite a mettere al centro il cliente? 3) sapete accogliere e sviluppare individui innovativi e fare spazio all’intraprenditorialità? 4) sapete coinvolgere, motivare e fare partecipare i dipendenti nella sfida quotidiana della resilienza?”.

I manager e imprenditori relatori al CEO Summit hanno il lusso di poter rispondere affermativamente: quelli come Francesco Casoli di Elica, Marina Salamon di Altana, Giorgio Bloggero di Leaf Italia, e gli altri ambasciatori dell’eccellenza aziendale italiana ospiti alla conferenza. Gente accomunata da una virtù: la leadership. Che, ricorda Casoli, non deve essere mai sinonimo di presunzione: “come faccio a competere se penso di essere il re di tutto, se comando tutto io? Cerchiamo di essere un po’ meno presuntuosi, che è un po’ il male degli imprenditori italiani”. Della stessa idea Marina Salamon: “non ho una stanza o una scrivania: vado in giro dai lavoratori, imparo di più. Perché così entro nelle diverse realtà dell’azienda, senza sentirle però figlie mie da proteggere”. Per Giorgio Bloggero, poi, essere CEO significa non soltanto comandare un impresa, ma anche avere delle responsabilità nei confronti del sistema Paese: “il mio ruolo è far lavorare insieme tutte le persone. Io posso timonare la nave, essere un facilitatore, uno spronatore, ma ogni approdo è un punto di partenza. Dobbiamo essere ancora più bravi, più veloci. Il nostro ruolo, in quanto CEO, è portare investimenti in Italia, essere degli ambasciatori. E’ un lavoro duro, e ognuno deve fare la sua parte, anche e soprattutto per il Paese”.

Carlo Alberto Carnevale Maffè, Docente di Strategia e Politica Aziendale in Bocconi, nel suo intervento ha provato a tracciare un identikit del CEO-leader: deve farsi portatore di edge competences, diventare “scultore” di strategie, “filosofo” del valore sospeso tra transazioni economiche e relazioni, “banchiere” dell’integrità aziendale. Più pragmatico lo speech di Luca Colombo, Country Manager Facebook, per il quale la leadership si esprime nel tessuto dell’impresa attraverso diversi fattori: 1) tecnologia, la quale “è imprescindibile: non è più prerogativa degli esperti di IT o degli specialisti di digital, deve essere qualcosa che sta nella testa dell’azienda”; 2) cultura del fallimento: “sbagliare è parte del nostro dna, l’importante è non commettere gli errori due volte” 3) approccio “open”: “ognuno in Facebook è stimolato a sviluppare prodotti e innovarli” 4) centralità del consumatore: “le aziende dovranno sempre più essere customer center, per adeguarsi ai feedback dei clienti”.

Gli ospiti hanno descritto la figura del leader, genericamente, come colui capace di tessere le fila del “discorso impresa”. Una definizione più precisa l’ha fornita Marcello Veneziani, editorialista de “Il Giornale”: “Io credo che ci siano due forme di leadership: una è la leadership mimetica, il tentativo di mimetizzarsi, di adeguarsi all’ambiente, all’habitat, e quindi di rispondere attraverso forme di galleggiamento e di low profiling, vivendo nella corrente. In Italia invece serve una leadership distintiva, capace di distinguersi, di andare controtendenza. Noi non possiamo competere coi grandi sistemi esteri adeguandoci al loro corso: non possiamo che percorrere una strada antagonista, alternativa, differente, puntando sulle nostre peculiarità”. Secondo Veneziani, i leader delle aziende italiane devono riuscire a mettere insieme due tendenze: da un lato, far tesoro del patrimonio ereditario, di ciò che siamo, del “Brand Italia”; dall’altro, miscelare questo patrimonio con la capacità di innovarlo. “La leadership ha solo una possibilità d’uscita: distinguersi, non mimetizzarsi”.

E ancora: “il dramma del nostro paese è non puntare sui giovani ma sul sistema di relazioni, e così investiamo sull’immediato, senza rischiare sul futuro”. Leadership in quanto azzardo, dunque, in quanto strada coraggiosa e controcorrente: un po’ come nel caso di Enrico Pazzali, Amministratore Delegato di Fiera Milano, che ha testimoniato il grande prezzo personale della ristrutturazione aziendale di cui stato protagonista, che ha avuto come conseguenza intimidazioni e minacce: “il nostro mestiere è riempire i bicchieri mezzi vuoti” – ha affermato Pazzali – “senza deprimersi”.

Quali sono state le strade vincenti che hanno percorso i leader ospiti di CEO Summit nelle loro storie virtuose di business? Eccole in sintesi: cura spasmodica dei bisogni del cliente, flessibilità organizzativa capace di garantire un’innovazione continua, scelta di un segmento di lusso, costruzione di un ecosistema aziendale creativo capace di valorizzare la diversità esperienziale e umana e, soprattutto, internazionalizzazione dell’attività. Quest’ultimo tema, filo rosso del dibattito al Summit di Business International, sarà approfondito in un Focus ad hoc: “La sfida dell’internazionalizzazione come risposta alla crisi”.

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Google Glass, finalmente le specifiche

È ormai da un anno che fantastichiamo sui Google Glass, gli occhiali di Mountain View in uscita nel corso dell'anno e che promettono di cambiare la nostra vita quotidiana tenendoci connessi 24 ore su 24 semplicemente indossandoli. Il primo video era sbucato su Youtube proprio ad aprile 2012, ma riportava solo una visuale in soggettiva di un utente che utilizzava il gadget Google in uno scenario ipotetico. Poi lo abbiamo visto indossato da Sergey Brin e altri vip: abbiamo capito qualcosa in più sull'estetica di questi Google Glass, ma ancora niente sugli ingranaggi all'interno. Fino ad oggi: Google infatti ha rilasciato proprio nelle ultime ore una lista di specifiche tecniche relative al suo dispositivo indossabile.

Innanzitutto il display sarà da 640x360 pixel. Non proprio una marea in termini assoluti, ma da Google ricordano che a una distanza così ridotta dagli occhi saranno più che sufficienti. Più precisamente, sarà come guardare uno schermo HD da 25 pollici da una distanza di un paio di metri.

La fotocamera sarà da 5 Mpixel e in grado di riprendere video in 720p, ma senza informazioni sul tipo di sensore impiegato non possiamo ancora sapere come si comporterà in condizioni di luce scarsa. La memoria a bordo sarà da 16GB, di cui 12 effettivamente utilizzabili, insieme a quelli resi disponibili dalla sincronizzazione coi servizi cloud di Google.

L'audio sarà a conduzione ossea, mentre la batteria dovrebbe permettere a Glass di durare una giornata intera. Per quel che riguarda la connettività, infine, la scelta di Google è caduta su Wi-Fi b/g e Bluetooth.

Dal lato software, alcune informazioni arrivano dal rilascio della documentazione relativa alle api destinate agli sviluppatori. Da questa apprendiamo soprattutto che chi vuole portare la propria app su Glass non potrà renderla a pagamento, né puntare sulla pubblicità al suo interno.

Una mossa abbastanza sorprendente che lascia aperto un interrogativo importante sul modo in cui verranno ricompensati gli sviluppatori. Come suggerisce The Verge, però. probabilmente si tratta di condizioni preliminari relative alla fase beta del programma, che una volta terminata lascerà spazio a un modello di business più appetibile per il futuro ecosistema che ruoterà attorno a Glass.

Fonte: Wired - Articolo di Lorenzo Longhitano

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