Le imprese, PMI e multinazionali, operano all’interno di un quadro giuridico
e regolamentare molto complesso ove i rischi di commissione di infrazioni a
normative sempre più numerose e strutturate aumentano.
In tale contesto le imprese tendono in maniera crescente ad adottare
volontariamente programmi aziendali volti a ridurre il rischio di commissione di
illeciti ed a monitorare le pratiche poste in essere alla luce delle varie norme
di volta in volta applicabili. Infatti, tali programmi sono ritenuti dalle
imprese strumenti fondamentali per la prevenzione e gestione dei rischi non solo
finanziari e commerciali ma anche reputazionali ai quali le stesse sono
sottoposte in caso di commissione di infrazioni.
Le regole poste a tutela della libera concorrenza si inseriscono in questo
quadro giuridico e regolamentare, a livello europeo e nazionale. In particolare,
le imprese hanno la responsabilità di conformarsi alle regole in materie di
intese restrittive e abuso di posizione dominante descritte agli artt. 101 e 102
del TFUE, e agli artt. 2 e 3 della L. 287/1990 per quanto riguarda l’Italia, per
evitare o quanto meno mitigare il danno – a livello sanzionatorio e
reputazionale – associato ai casi di infrazione.
In effetti, le imprese che pongono in essere comportamenti qualificabili come
anticoncorrenziali si espongono al rischio di vedersi comminare dalla
Commissione europea o da autorità antitrust nazionali sanzioni pecuniarie che
possono raggiungere il tetto del 10% del fatturato mondiale consolidato prodotto
nell’anno precedente – anche alla luce della presunzione di responsabilità della
capogruppo per violazioni commesse dalle società figlie. In tale prospettiva, è
pertanto essenziale per le imprese prendere in mano il proprio futuro,
salvaguardandolo attraverso l’adozione e la messa in opera di programmi di
compliance antitrust aziendali robusti, effettivi ed efficaci in grado di
migliorare ulteriormente la compliance alla norma.
E infatti, molte imprese in questi ultimi anni hanno adottato programmi di
conformità alla normativa antitrust nella consapevolezza che le procedure
interne volte ad assicurare il rispetto delle normative applicabili e a
promuovere, incentivare e diffondere una cultura antitrust in azienda siano
elementi necessari per assicurare una reputazione solida, la concorrenzialità e
il cd. level playing field all’interno del mercato, con benefici diretti a valle
sulla clientela.
A ciò si aggiunga che varie autorità della concorrenza nazionali hanno già
mostrato il loro interesse per la materia e, in alcuni casi, disciplinato
compiutamente la costruzione dei programmi di compliance e il valore da
attribuire ai medesimi. In tal senso, le autorità della concorrenza nazionali,
britannica e francese, hanno pubblicato recentemente regolamenti, linee-guida e
vari report volti ad aiutare le imprese ad implementare e adottare programmi di
compliance antitrust effettivi ed efficaci, riconoscendo peraltro agli stessi -
in alcune ipotesi - valore di circostanza attenuante in fase contenziosa nella
determinazione della sanzione.
L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato italiana ha sottolineato in
varie occasioni l’importanza fondamentale ormai assunta dalle iniziative interne
volte a diffondere la cultura di compliance antitrust in azienda. Per quanto
riguarda la Commissione europea, il Commissario alla Concorrenza, Joaquin
Almunia, ha ribadito più volte l’importanza che i programmi di compliance
rivestono e incoraggiato le imprese ad implementarli.
In tal senso, la DG Competition della Commissione europea ha dedicato alla
compliance antitrust una sezione del proprio sito internet con la pubblicazione,
in particolare, della brochure “Compliance Matters” e di ulteriori materiali
volti ad guidare le aziende nello svolgere la propria attività di compliance
aziendale alle regole della concorrenza. Alto è l’interesse in materia anche da
parte di associazioni e think tanks, attivi a livello nazionale e
sovranazionale, che a vario modo stimolano e partecipano attivamente al
dibattito, spesso arrivando a definire “best practices” e “toolkits” in grado di
rappresentare il benchmarking in materia a livello globale.
Il Consiglio dei Ministri nella riunione di sabato 7 aprile ha approvato il
testo del decreto decreto legge per sbloccare da subito i pagamenti di debiti
commerciali delle PA verso imprese, cooperative e professionisti per un importo
di 40 miliardi, che verranno erogati nell'arco dei prossimi dodici mesi.
Secondo quanto reso noto dalla nota del CdM il decreto legge, coerentemente con
le linee-guida dell'Unione Europea in materia, prevede le seguenti misure:
I Comuni e le Province, entro il prossimo 30 aprile, faranno richiesta
di autorizzazione al Mef per i pagamenti da effettuare. Tali pagamenti saranno
autorizzati entro il 15 maggio e finanziati con le disponibilità liquide degli
enti. Entro il 15 giugno le Amministrazioni dovranno comunicare importi e
tempistiche alle imprese beneficiarie dei pagamenti. Sin da subito, in attesa
della citata autorizzazione, i Comuni e le Province possono, comunque,
iniziare a pagare i propri debiti nel limite del 50% dei pagamenti programmati.
Comuni, Province, Regioni e ASL, se non hanno disponibilità liquide,
possono ottenere finanziamenti a valere sul Fondo. A tal fine, entro il
prossimo 30 aprile faranno richiesta al Mef delle risorse necessarie per i
pagamenti e dovranno ricevere entro il 15 maggio le relative
ripartizioni, a valere sul Fondo.
Entro il 31 maggio 2013 le P.A. debitrici dovranno comunicare alle
imprese creditrici il piano dei pagamenti.
Il Decreto Legge dovebbe essere pubblicato già oggi in Gazzetta Ufficiale per
porte consentire da subito i pagamenti da parte delle P.A. con disponibilità di
bilancio.
A cura di Stefano Feltrin
High yield significa, letteralmente, alto rendimento. E chi se ne
intende sa bene che, in gergo finanziario, “alto rendimento” è quasi sempre
sinonimo di rischio elevato. Questo è vero anche quando si parla di
obbligazioni, che sono forse meno soggette alla volatilità dei mercati azionari
ma presentano un rischio aggiuntivo: quello di fallimento dell’emittente. I bond
high yield rientrano nella fascia meno sicura, ma più redditizia, del comparto
obbligazionario. Si tratta di titoli di debito classificati dalle agenzie di
rating internazionali con giudizi di “BB” o inferiori. Man mano che si scende
lungo la scala dei rating, maggiore è il rischio di insolvenza dell’emittente e,
di norma, più elevato è il rendimento offerto.
Ultimamente, l’interesse degli investitori per questa asset class si è fatto più
marcato, tanto da determinare un vero e proprio boom negli Stati Uniti, dove le
emissioni hanno sfiorato i 350 miliardi di dollari nel 2012 e sono già a 90
miliardi nel primo trimestre del 2013. Il rendimento medio atteso per i bond
high yield statunitensi si attesta intorno al 7% circa (era il 13% nel 2012),
mentre il tasso di default (ovvero, di fallimento e di insolvenza) atteso delle
società emittenti, nelle stime degli analisti, è pari a circa il 3,5%.
È facile riconoscere nella prospettiva di un rendimento elevato la ragione del
fascino rischioso degli high yield. Ma cosa giustifica il boom degli ultimi
mesi? Sostanzialmente, l’assenza di alternative valide per ottenere rendimenti
reali attraenti. In uno scenario di inflazione elevata, yield bassi e ampia
volatilità dei mercati, gli investitori si spostano verso le asset class più
rischiose pur di non vedere i propri risparmi perdere potere d’acquisto reale o
languire in banca con rendimenti vicini allo zero.
È evidente, però, che per investire con successo in bond high yield bisogna
seguire alcuni principi di buon senso. Il primo fra tutti consiste nel
diversificare il più possibile il portafoglio. Per fare un esempio basato sulle
stime degli analisti, su un investimento da 100mila euro suddiviso equamente in
100 di bond high yield americani, il rendimento atteso sarebbe di 7mila euro,
mentre le perdite prospettiche in caso di fallimento del 3,5% delle aziende
ammontano a 3.500 euro. Il risultato è comunque un guadagno positivo, ma la
condizione preliminare è un’estrema differenziazione del portafoglio. Ben
diverso sarebbe stato il risultato se si fossero investiti 10mila euro in un
unico bond high yield di una società destinata al default, con il rischio di una
perdita totale del capitale.
In secondo luogo, per minimizzare le perdite è bene selezionare i singoli bond
high-yield andando a studiare i fondamentali delle società emittenti, così da
individuare quelle a minor rischio di insolvenza. Se il compito dovesse
risultare troppo gravoso, meglio rivolgersi ai gestori di fondi specializzati
che – si spera – dovrebbero selezionare i titoli proprio per ottenere risultati
migliori rispetto alla media dei mercati.
Fonte: Wired - Articolo di Andrea Curiat
Slitta il decreto per il pagamento dei debiti della PA alle imprese: il CdM
convocato per il 3 aprile è stato rimandato più volte nel corso della giornata
fino ad essere spostato a prossimi giorni (probabilmente lunedì 8 aprile).
I ministri dell’Economia Vittorio Grilli e dello Sviluppo Economico Corrado
Passera hanno richiesto ulteriori approfondimenti prima di definire il testo del
decreto sui pagamenti dei debiti commerciali della Pubblica Amministrazione.
Il punto debole è l’aggiornamento del DEF, il Documento di programmazione
Economica e Finanziaria: la restituzione di 40 miliardi fra il 2013 e il 2014
deve essere portata a termine senza peggiorare troppo i conti pubblici.
L’impatto stimato dal Governo è pari a uno 0,5% di deficit/PIL, che per il 2013
significa sfiorare quel 3% che, pur con le flessibilità che l’Unione Europea ha
concesso all’Italia per sbloccare i pagamenti, resta un limite invalicabile.
Anche perché ci sono ulteriori richieste delle imprese da valutare, come il
blocco dell’aumento IVA al 22% previsto per luglio e il rinvio della TARES al
2014, che assieme costerebbero almeno altri 7-7,5 miliardi.
Lo rende noto un comunicato del portavoce di Rehn, Olivier Bailly.
Ad ogni modo Monti avrebbe già inviato a Bruxelles la necessaria documentazione
per rassicurare la UE sull’impegno del’Italia nel rispettare il vincolo. Il
commissario europeo per gli Affari monetari Olli Rehn ha avviato l’immediato
esame dei termini del decreto.
Insomma, al solito c’è un problema di copertura. Una delle bozze valutate nelle
scorse ore prevedeva di finanziare la misura con un anticipo al 2013
dell’aumento dell’addizionale regionale IRPEF, ma l’ipotesi ha scatenato
reazioni così negative da parte dei sindacati e forze politiche da rientrare
subito. Per ora.
Anche secondo le PMI di Rete Imprese Italia queste ipotetiche bozze non
andrebbero incontro alle richieste delle aziende, invece accolte dal Parlamento,
«di predisporre interventi di immediata eseguibilità, con procedure semplificate
o automatiche, evitando il rimando a ulteriori fonti normative di carattere
secondario e, soprattutto, verificando la fattibilità di introdurre la
compensazione diretta tra debiti e crediti da parte delle imprese».
Tuttavia, il rinvio del CdM – in cui si dovrà necessariamente approvare il
decreto sul rientro del debito della PA con le imprese – sembra proprio
riconducibile all’esigenza di far quadrare i conti, magari armonizzando il
provvedimento con altre misure economiche.
Fonte: PMI:it - Articolo di Barbara Weisz
Il 1° marzo è entrata in vigore la Tobin Tax, anche se limitatamente ai
trasferimenti di proprietà di azioni e strumenti finanziari partecipativi e alle
relative operazioni "ad alta frequenza". Il 1° luglio l'imposta sulle
transazioni finanziarie (Itf) entrerà in vigore anche sui contratti derivati,
anche cartolarizzati) e sulle relative operazioni ad alta frequenza. Ma a oggi
mancano alcuni provvedimenti attuativi e la circolare esplicativa.
Per fare un confronto, la circolare francese sulla locale Tobin Tax è stata
pubblicata sul bollettino delle imposte del 3 agosto 2012, tre mesi prima della
data in cui la relativa legge avrebbe avuto effetto (1° dicembre 2012).
L'imbarazzo deriva dal fatto che l'Itf italiana coinvolge gli intermediari
finanziari e i contribuenti di tutto il mondo, non abituati, a differenza di
quelli italiani, a operare al buio.
È quindi urgente l'emanazione del provvedimento necessario per definire i dati
che dovranno essere indicati in dichiarazione dai responsabili d'imposta (dati
che possono includere anche le operazioni e escluse ed esenti); in modo da
consentire loro di approntare immediatamente le procedure di estrazione.
All'estero, comunque, l'imposta è stata presa molto sul serio. L'Afme (Association
for Financial Markets in Europe), il 27 febbraio, aveva già reso pubblico un
protocollo per regolare i rapporti e le responsabilità fra i diversi
intermediari che possono intervenire in ciascuna operazione; protocollo nel
quale viene, fra l'altro, prevista la possibilità di accordarsi sulla reciproca
attribuzione degli obblighi di pagamento e di dichiarazione dell'imposta e sui
relativi obblighi strumentali, secondo una logica che si auspica non trovi
ostacoli nell'interpretazione della nostra amministrazione finanziaria.
Il principale problema, in effetti, è proprio individuare correttamente il
responsabile dell'imposta. Cioè l'intermediario obbligato a versare le imposte,
a presentare le dichiarazioni e a tenere le evidenze necessarie per i controlli
fiscali.
L'imposta è versata dall'intermediario, che riceve direttamente dall'acquirente
o dalla controparte finale l'ordine dell'esecuzione (articolo 19, comma 4 del
decreto).
Se il riferimento è fatto, in senso tecnico, all'attività di «esecuzione di
ordini per conto dei clienti» o di «ricezione e trasmissione di ordini» di cui
rispettivamente alle lettere b) ed e) dell'articolo 1, comma 5 del Testo unico
della finanza, si deve considerare che si tratta di attività riservate,
dall'articolo 18, comma 1 del testo unico stesso, alle banche e alle imprese
d'investimento. Pertanto, il ruolo delle fiduciarie e dei notai dovrebbe essere
del tutto residuale.
Fonte: IlSole24Ore - Articolo di Marco Piazza