Rispetto al primo semestre del 2012 si segnala una crescita del 2% dei
viaggi business.
Nella prima parte del 2013 le aziende italiane ricominciano a mandare i propri
dipendenti in viaggio di lavoro, dopo la sfilza di segnali negativi degli ultimi
tempi. Questo quanto emerge dall’Uvet Travel Index, che segnala come nei primi
sei mesi dell’anno, in relazione allo stesso periodo del 2012, la percentuale di
crescita dei viaggi di lavoro sia pari al 2%, anche se la spesa media continua a
ridursi.
Le aziende italiane monitorano infatti molto attentamente le spese, che
nonostante l’aumento dei viaggi business fanno segnare una contrazione del 4%,
seppure la voce capace di far segnare il maggior incremento rispetto alle scorse
rilevazioni sia quella relativa ai viaggi intercontinentali, aumentati del 6%.
Diminuiscono invece sia i viaggi in Europa, che calano del 2%, sia quelli
interni alla penisola, giù dell’8%, a conferma di come si parta alla ricerca di
mercati vivi e dinamici, con Brasile e Russia su tutti gli altri.
Si sceglie di più lo spostamento in treno, con i viaggi sui binari che sono
aumentati del 10% rispetto allo scorso anno, mentre la meta più gettonata in
assoluto dagli italiani diventa Dubai, che ha scalzato dal gradino più alto del
podio New York. Per quel che riguarda l’Europa, i nostri traveller scelgono
Parigi come meta preferita, mentre calano i viaggi d'affari a Francoforte,
Monaco e Bruxelles.
Indicatori condivisi e premi di mercato per promuovere e incentivare la
responsabilità sociale d'impresa.
E' questa la ricetta proposta da Pier Mario Barzaghi, head of corporate
responsabilità Kpmg Network, intervenuto al Csr Italian Summit, giornata di
incontro e dibattito organizzata da Business International e Amref.
Stabilire degli standard setter internazionali per queste attività "è un lavoro
enorme" spiega all'Adnkronos, Barzaghi ma è anacronistico "parlare di
volontarietà piuttosto che di obbligatorietà di questi temi". A livello
internazionale, però, "alcune direttive, l'ultima è quella di aprile, continuano
a introdurre sempre elementi nuovi per cercare di dare degli indicatori su come
l'azienda si comporta dal punto di vista sociale e ambientale".
Diverso è invece definire dei premi per le aziende. "Ritengo che
defiscalizzazioni, agevolazioni siano delle opportunità che possono essere colte
per arrivare ad una obbligatorietà magari con gradi differenti di preparazione
delle aziende".
Fonte: IGN - Portale del Gruppo Adnkronos
Il ruolo delle catene globali di produzione nella trasformazione del modello di creazione del valore
A cura di
Daniele Langiu, Francesco Morello, Fabio Sdogati
Sono ormai passati quasi sei anni dal famoso 9 agosto 2007, giorno in cui BNP
Paribas ha annunciato la mancanza di liquidità di tre dei suoi fondi di
investimento, motivando tale scelta come la conseguenza necessaria della scarsa
liquidità in certi segmenti del mercato delle cartolarizzazioni statunitensi che
rendeva impossibile valutare correttamente certi titoli. Quest’annuncio, che ha
segnato l’inizio della crisi finanziaria statunitense, si è trasferito presto al
mondo delle imprese non finanziarie. In tal modo la crisi finanziaria è divenuta
crisi dell’economia reale dell’economia statunitense e, data l’elevata
connessione internazionale dei mercati reali e, ancor di più, dei mercati dei
capitali, la crisi iniziata negli Stati Uniti si è propagata a livello globale,
in primo luogo in Europa, ed in particolar modo tra i paesi dell’Eurozona.
La prolungata recessione che ne è conseguita ha alla sua base una
trasformazione del modello di accumulazione della ricchezza nelle economie a più
alto reddito pro-capite. Più precisamente, stiamo assistendo ad un processo di
deindustrializzazione e di finanziarizzazione di queste economie che ha luogo
tramite la concomitanza di alcuni fattori:
Al centro dell’economia reale c’è quindi un cambiamento paradigmatico
dell’organizzazione del processo produttivo. Fino alla metà degli anni settanta
abbiamo sperimentato un modo di produrre basato su un principio fondamentale: il
processo produttivo era integrato nazionalmente. Questo modo di produrre è
necessariamente entrato in crisi quando la riduzione dei costi di coordinamento
di fasi del processo produttivo ha permesso di allocare tali fasi all’estero. Il
processo che ha preso forma è quello della Frammentazione Internazionale della
Produzione.
Con la formazione delle catene globali di produzione, il valore aggiunto nella
produzione non è più direttamente associabile ad un unico paese. Il valore
aggiunto delle esportazioni di un determinato paese è ‘aggiunto’ non solo da
imprese del paese stesso ma anche da imprese localizzate all’estero. È possibile
osservare che per quasi tutti i settori e per quasi tutti i paesi, si sia
verificato un incremento della quota di valore aggiunto estero contenuta nelle
proprie esportazioni. Questo ad indicare che è in atto un processo di
allocazione internazionale della fasi del processo produttivo, il cui obiettivo
è far svolgere ad un costo relativamente più basso fasi del processo produttivo
prima svolte all’interno dei confini nazionali. In particolare sono aumentati i
beni intermedi importati sul totale dei beni importati.
A questo punto, viene da domandarsi:
Alla luce della nostra interpretazione della crisi, queste sono le
prospettive delineate.
In primo luogo, negli Stati Uniti, la ripresa in atto è debole e fragile, in
parte per la recessione in cui si trovano alcuni paesi dell’Eurozona e per la
debole e fragile crescita nei restanti paesi dell’unione monetaria, che finora
erano stati considerati “immuni” dai problemi specifici dei primi. La debolezza
della ripresa implica in primo luogo debolezza della domanda. Per le imprese ciò
è destinato a tradursi in due tendenze: concentrazione dei settori industriali e
ricerca di efficienza tramite innovazioni di prodotto e di processo; tra queste
ultime, l'ottimizzazione della supply chain su scala globale svolgerà
sicuramente un ruolo di primo piano e rappresenterà una delle principali fonti
di vantaggio competitivo.
La debolezza della domanda aggregata e la persistenza di un elevato tasso di
disoccupazione lasciano presagire che ci sia spazio per un intervento ulteriore
in termini di politica monetaria – non preoccupiamoci della crescita del livello
dei prezzi, dato che c’è così tanta capacità inutilizzata nel sistema produttivo
– e, soprattutto, per un rinnovato intervento di politica fiscale, volto a
stimolare la componente pubblica della domanda aggregata e ad accrescere
l’occupazione tramite delle adeguate politiche industriali. Per le grandi
imprese questo significherà un'inevitabile ingerenza nelle scelte strategiche da
parte dello stato, e per le piccole un diverso contesto di incentivi e vincoli
in cui operare le proprie scelte, in primo luogo quelle di
internazionalizzazione.
Inoltre, nonostante il rinnovato ruolo della politica economica,
l'interdipendenza dell'economia mondiale è oggi tale da non lasciar presagire
alcuna inversione di tendenza nel processo di globalizzazione in atto da ormai
diversi decenni. Qualsiasi scelta di politica economica dovrà ormai tenere
conto, oltre che delle realtà locali, anche delle implicazioni del modello
dell'impresa globalmente integrata, e i maggiori benefici di qualsiasi ulteriore
intervento governativo nell'economia toccheranno sicuramente proprio alle
imprese più internazionalizzate.
Infine, il processo di deindustrializzazione dell’economia statunitense e delle
altre economie a più alto reddito pro-capite evidenzia che per le imprese
industriali di tali paesi, se prima aveva luogo la competizione per allocare
fasi del proprio processo produttivo nei paesi a basso reddito pro-capite, ora
progressivamente la competizione è con l’emergente settore industriale di tali
paesi. Le implicazioni della crescita di un settore industriale nelle economie
emergenti da considerare anche come un’opportunità dal lato della domanda, dato
che, tramite l’industrializzazione di tali paesi, aumenta il reddito pro-capite
dei suoi residenti.
In questo scenario, dal punto di vista macroeconomico, le risposte dei
responsabili di politica economica hanno seguito due percorsi differenti: mentre
la politica monetaria è stata crescentemente e ininterrottamente espansiva sin
dallo scoppio della crisi finanziaria con manovre convenzionali (riduzioni dei
tassi di sconto) e non convenzionali (quantitative easing), i governi hanno
adotta una politica fiscale espansiva nei primi mesi della crisi e restrittiva
da fine 2009 in poi. Dal punto di vista imprenditoriale, è necessario, invece,
sottolineare che il processo di deindustrializzazione e finanziarizzazione delle
economie a più alto reddito pro-capite necessariamente sottrae risorse, in primo
luogo profitti, al settore industriale.
Tali profitti, che progressivamente vengono distribuiti agli azionisti o
utilizzati per l’acquisto di attività finanziarie, non possono essere più
trattenuti dall’impresa per essere investiti nuovamente in essa. Per continuare
ad essere profittevoli, è necessario internazionalizzarsi. La domanda a cui
rispondere non è “se internazionalizzarsi oppure no”, piuttosto la domanda è
“quando intraprendere un processo di internazionalizzazione”. I benefici di tale
processo sono duplici: riduzione dei costi tramite la frammentazione
internazionale della produzione e accesso ad un mercato in crescita, il che
corrisponde ad una domanda aggregata di beni e servizi in crescita.
Ai responsabili della supply chain spetta oggi più che mai il compito di
decifrare il contesto internazionale e di coglierne le opportunità, che pur in
questa prolungata Grande Recessione di certo non mancano.
Il mercato del fashion e del lusso è, nonostante la crisi, un mercato in
espansione sia per l’apporto di nuovi consumatori nei paesi di nuova
“ricchezza”, sia per la maturazione delle scelte di consumo nelle economie
evolute. Questo è ancora più vero nel segmento del fashion e dell’affordable
luxury, che fortunatamente vede molte aziende italiane leader nel mondo in
diverse categorie (apparel, accessori, scarpe, occhiali, …).
L’unicità dei marchi e delle firme non mette però al riparo dalla competizione
orizzontale e le scelte del consumatore non sono tutte e sempre determinate
dall’azione del marketing: la corretta e tempestiva disponibilità dei prodotti
gioca un ruolo crescente nelle decisioni finali d’acquisto. Questo cambiamento
ha spinto le aziende più efficaci a superare il modello di pianificazione della
Supply Chain (se ne parlerà in modo approfondito il 15 e il 16 Maggio al Global
Supply Chain Forum 2013 a Milano) basato esclusivamente sulle collezioni in
prevendita, per adottare modelli più complessi che affiancano alle collezioni
vendute su campionario, delle gamme permanenti, la cui modalità operativa è il
Make-to-Stock.
Peraltro anche il tradizionale Make-to-Order di collezione si è evoluto:
l’integrazione a valle dei produttori e la necessità di minimizzare sia le
mancate vendite sia i residui di fine collezione spingono ad adottare una
visione integrata della Supply Chain del prodotto di collezione, pianificando
gli stock e le modalità di riallineamento della distribuzione.
Questo nuovo approccio del settore comporta alcune domande chiave:
I quesiti saranno affrontati al Global Supply Chain Forum 2013 la mattina del
15 Maggio dall’Ing. Manlio Rizzo, Amministratore Delegato di AchieveGlobal.
I comportamenti delle Aziende per sfruttare i benefici di questo nuovo modello
operativo sono molto variegati: si va dall’adozione di nuovi processi di Sales &
Operation Planning, supportati da strumenti di previsione a base quantitativa
come con logiche di marketing (ad esempio Delphi), alla scelta di procedere
cautelativamente con modelli di inventory planning solo per la parte di
assortimento definita come continuativa.
Non si può omettere che, comunque, persistono i casi di aziende meno pronte ad
innovare i processi, che continuano ad operare col solo modello di collezione;
questo comportamento è destinato a perpetuarsi almeno fino a quando non vengano
introdotte misure della domanda effettiva (vendite perse a livello di CeDi o,
meglio, di Punto di Vendita) oppure se ne abbia una percezione molto forte
attraverso gli stock di invenduto a fine canvass.
Quali benefici si trovano in fondo al percorso di cambiamento del modo di
pianificare:
Quali sono le difficoltà lungo il cammino? Oltre al cambio di mentalità, è necessario differenziare i processi e predisporre strumenti nuovi, ma soprattutto aumentare la collaborazione interfunzionale sia all’interno dell’azienda (Product Design, Brand Management, S&OP, Industrializzazione, Acquisti e Produzione), sia con i Punti di Vendita. Fortunatamente non è necessario addentrarsi in territori sconosciuti: i nuovi modelli esistono da tempo, sono già applicati con successo da alcune delle Aziende di maggior successo del settore e non richiedono necessariamente costosi investimenti tecnologici.
Serve una centrale acquisti multiente. La Consip cooperi con le associazioni
d'impresa. Il Governo sia più incisivo per spingere verso le nuove forme di
approvvigionamento IT. In vista ci sono 5 miliardi di euro di risparmi.
Va di gran moda l’e-procurement per la Pubblica Amministrazione (PA) italiana.
Tutti ne parlano; in molti hanno avviato progetti interessanti sia a livello
centrale (Consip, in primis) che in ambito regionale; ancora più numerosa è la
pattuglia di coloro, che ne magnifica i benefici; pochissimi sono invece i
soggetti consapevoli della lunga strada da percorrere per ottenere modelli di
approvvigionamento (elettronico) realmente efficaci ed efficienti.
Intendiamoci: vi sono ragioni da vendere che giustificano il ricorso a una
soluzione digitale per gli acquisti della PA. Secondo l’Osservatorio
eProcurement della School of Management del Politecnico di Milano la Pubblica
Amministrazione può ottenere risparmi per circa 5 miliardi di euro all’anno e
significativi guadagni di produttività del personale impiegato nelle procedure
di acquisto. Le imprese possono teoricamente godere di maggiore visibilità,
della riduzione degli sforzi commerciali nonché di un ampliamento ipotetico
della base di mercato.
Tutto questo sulla carta. Vi sono, infatti, ancora grandi inerzie negli enti -
sia per sfiducia nell’efficacia della tecnologia, sia per convinzione che i
fornitori locali non siano pronti - e oggettive barriere culturali, e di
competenze, legate alla comprensione dei meccanismi di accesso alle piattaforme
digitali.
La via per l’affermazione di un modello sostenibile di e-procurement presso la
PA italiana non ha comunque a che fare con la sola tecnologia. Se così fosse,
sarebbe sufficiente che fosse reso disponibile a tutti gli enti pubblici
italiani, l’accesso a un’unica piattaforma digitale abilitante su cui i singoli
enti/unità organizzative implementano azioni di approvvigionamento.
In realtà, una prima importante fonte di complessità risiede nell’organizzazione
del processo di acquisto. In prima battuta, infatti, verrebbe da dire che la
soluzione di gran lunga preferibile, nella prospettiva del conseguimento di
economie di scala, è quella di centralizzare tutto in una committenza unica. Ma
si tratta di un’opzione coerente solo per prodotti/servizi codificati
(cancelleria, personal computer, ecc.), per i quali, individuate le specifiche,
l’unica variabile rilevante è il prezzo di acquisto. Molto diverso è invece il
contesto relativo all’aquisto di beni/servizi complessi per i quali sono
opportune azioni di customizzazione quali, ad esempio, l’acquisto di un software
gestionale per uno specifico procedimento amministrativo. In questo caso, la
presenza di una committenza unica centrale non è fattibile (per l’impossibilità
di individuare un fabbisogno standard); d’altro canto, il singolo ente non è
quasi mai in grado di affrontare autonomamente una scelta così difficile e,
anche se lo fosse, spunterebbe condizioni economiche sub ottime. Pertanto, in
tali situazioni, è fondamentale che si attivi una centrale di acquisto
multi-ente, ovvero in grado di: raggiungere una dimensione ottimale minima per
ottenere adeguati risparmi economici; rappresentare un set omogeneo di bisogni e
offrire l’intera filiera di servizi a supporto dell’acquisto – dalla
identificazione delle specifiche all’installazione del bene/servizio oggetto di
acquisto -. In altri termini, questa centrale di acquisto potrebbe andare a
coincidere con quelli che una volta venivano chiamati Centri Servizi
Territoriali (CST) o Alleanze per L’Innovazione (ALI), ovvero con quei soggetti
costituitisi per gestire in modo efficace ed efficiente progetti di e-government.
Tutto andrebbe a convergere: oltre ai servizi di e-government, i CST/ALI si
troverebbero a offrire servizi fondamentali per gli enti che rappresentano,
facendo ovviamente ricorso a una piattaforma tecnologica unitaria.
Ma ancora non sarebbe sufficiente; il sistema industriale italiano – costituito
in larghissima parte da piccole e medie imprese poco sensibili alle tecnologie
digitali – deve essere adeguatamente spinto a ricorrere al mercato elettronico
della PA. In questo senso, la Consip, oltre a fornire la piattaforma tecnologica
unitaria (e di accordi quadro per beni/servizi standard), dovrebbe cooperare con
le associazioni datoriali delle imprese per diffondere una sensibilità nuova,
nelle imprese, per questo tipo di strumenti; lo stesso Governo dovrebbe essere
ancora più deciso – rispetto anche a quanto emerge nell’Agenda Digitale –
nell’indurre imprese e PA verso l’utilizzo della fatturazione elettronica e il
ricorso a procedure digitali di approvvigionamento.
Insomma, mi pare di poter dire che la strada per l’e-procurement nella PA
italiana è tracciata. Vi sono condizioni di contesto del tutto favorevoli: ma
l’e-procurement è ancora un obiettivo lontano nel tempo, che deve essere meglio
contestualizzato sul versante organizzativo.
Agenda Digitale
Ancora un anno nero, ancora nessuna prospettiva di ripresa. Il settore della
logistica chiude il 2012 così come era cominciato: con i fatturati in calo, le
aziende in sofferenza, il numero degli addetti in diminuzione. E per i prossimi
dodici mesi le aspettative sono altrettanto pessimistiche, con il primo semestre
che sarà in linea con i risultati negativi fatti registrare fino ad ora e con il
secondo che mostrerà timidi segnali di risalita che non saranno però in grado di
invertire la tendenza. Le rilevazioni di Confetra, la confederazione che
raccoglie le imprese del trasporto, della spedizione, della logistica e del
deposito delle merci, sostengono che l'anno appena trascorso si è chiuso con il
segno meno per tutti i settori: il trasporto su gomma ha fatto registrare una
diminuzione dei volumi di traffico intorno al 5% rispetto al 2011, quello su
rotaia del 4,8%, quello via aria del 5,8% e anche anche le direttrici navali
hanno mostrato una contrazione nell'ordine del 3/5%. Unico dato positivo, che
secondo le previsioni continuerà a crescere anche il prossimo anno, è quello
relativo agli Express Courier che lavorano con le aziende attive nell'e-commerce
e che si è consolidato intorno a un +2% su base annua. «Quest'ultimo è il solo
settore che ha fatto registrare dei risultati positivi in uno scenario
altrimenti profondamente negativo - spiega Piero Luzzati, direttore generale di
Confetra -. Ci si aspettava, per il 2012, una ripresa dell'attività produttiva e
quindi un aumento dei volumi di merci trasportate ma la crescita non c'è stata.
È un periodo nero che le imprese della logistica non hanno vissuto nemmeno nel
2008 e che non migliorerà nemmeno nel 2013». Le previsioni di Confetra parlano
di una diminuzione ulteriore di fatturato e traffico di circa il 4%, di un calo
del numero dei lavoratori (che si stima attualmente siano 460mila) e di un saldo
in pareggio tra numero di imprese fallite e aperte (si manterrà stabile intorno
alle 100mila realtà attive). «I risultati negativi che abbiamo di fronte non
sono legati solo alla contrazione generale dell'economia ma anche all'assenza di
una politica di sviluppo del comparto della logistica - sostiene Luzzati -. Se
analizziamo la situazione italiana e la confrontiamo con quella dei Paesi
europei ci accorgiamo delle storture del nostro sistema: in cinque anni è stato
dimezzato il trasporto delle merci su rotaia, abbiamo 27 autorità portuali che
si fanno concorrenza e frammentano l'offerta, gli aeroporti non riescono a
essere competitivi. Fino a quando non si interverrà con delle misure
strutturali, che comprendano semplificazioni e liberalizzazioni vere, non si
risolverà niente». Una visione pessimistica che trova d'accordo anche Carlo
Mearelli, presidente di Assologistica, e gli operatori associati alla sua
organizzazione, secondo i quali per tutto il primo semestre 2013 in concomitanza
con il perdurare della crisi economica e della diminuzione degli ordinativi, si
assisterà a un forte rallentamento dei traffici commerciali che inciderà in
primo luogo sulle aziende di piccole dimensioni. Peggiorando un quadro già cupo
ma all'interno del quale si potranno trovare spiragli di crescita: «La logistica
è una cartina al tornasole del sistema produttivo nazionale - dice Mearelli - e
ce ne mostra le criticità: i dati dell'ultimo anno ci dicono che i consumi
interni sono crollati e che chi ha lavorato con l'estero è invece riuscito a
sopravvivere. Gli attori della logistica devono dunque trovare un nuovo modello
di business per resistere: non più semplici trasportatori di merci ma veri e
propri partner delle imprese. Per coloro i quali nel 2013 saranno in grado di
raccogliere la sfida ci saranno margini di miglioramento mentre tutti gli altri
continueranno sulla strada segnata da questi anni di crisi».
Ilsole24ore - Articolo di Giacomo Bassi