La quiete agostana è stata scossa dal documento di Business Roundtable
siglato da 180 CEO, per una doverosa lettura del quale rinviamo al link (https://opportunity.businessroundtable.org/ourcommitment/).
Tale iniziativa ha suscitato una vasta eco ed ha il merito di aver accelerato
riflessioni, dibattiti, confronti avviati, a dire il vero, già da tempo. Grazie,
infatti, ai contributi di N.Piketty, J.E.Stiglitz , F. Fukuyama, Papa Francesco
( con l’enciclica Laudato sii) ci si sta interrogando se il business model
adottato nel XX secolo non debba essere rivisto; business model di cui la
devastante crisi del 2007 ha indubbiamente contribuito a metterne in evidenza i
limiti ed pesanti squilibri.
Non è nostra intenzione entrare nel merito alla scelta dei tempi ed alle reali
intenzioni dei promotori della dichiarazione di Business Roundtable, in
particolar modo sulla scelta dei tempi per la quale alcuni dei nostri referenti
in US ci hanno messo a parte di perplessità legate a questioni interne di
politica economica americana. Riteniamo più utile domandarci quali implicazioni
possano emergere per le imprese e per i manager, in particolare se la teoria
lanciata da Friedman nel 1970 dello sharesholder value , sulla
quale si sono formati intere generazioni di imprenditori e di manager, e che
tanto ha contribuito ad influenzare lo short-termism ,non abbia
esaurito la sua forza propulsiva.
Cominciamo intanto col ricordare che da alcuni anni la teoria liberista di
Friedman era stata diversamente declinata in molte aziende con l’introduzione
della Service profit chain (soddisfazione dei collaboratori = impegno
=soddisfazione dei clienti = fidelizzazione dei clienti = profitto) e di forme
di CSR sempre più autenticamente orientate ai fabbisogni dei contesti. Non solo
ma nella lista di Fortune delle "100 best companies to work for", le
aziende con maggiore attenzione al capitale umano hanno sempre mostrato, negli
ultimi anni, una redditività superiore alle altre aziende quotate al NYSE.
Oggi viene proposto, però, un cambio di paradigma molto impegnativo. Per
evitare, infatti, che il tutto si esaurisca in una semplice dichiarazione di
intenti, occorre che tale paradigma venga declinato con tangibili cambiamenti in
tema di strategie aziendali, con particolare riferimento a: il rispetto per
l’ambiente, il rispetto per le persone, la riduzione delle diseguaglianze
interne ed esterne all’impresa. Non bisogna dimenticare un convitato di pietra
ossia lo Stato, chiamato comunque ad assicurare un ruolo di promozione e
vigilanza sulla res pubblica .
Rimanendo però nell’ambito di nostra competenza, ossia l’impresa, è nostra
convinzione che alcune scelte possano e debbano essere operate già
nell’immediato. Partiamo, per esempio, dai sistemi di remunerazione sin qui
adottati, in alcuni casi le retribuzioni percepite a livelli apicali sono
sproporzionate rispetto al resto della popolazione aziendale e gli stessi
sistemi incentivanti sono ancora influenzati dallo short-termism.
Ben lungi da impostazioni collettivistiche, riteniamo che si possano ridurre
progressivamente certi gap salariali, impostare programmi retributivi che
attirino e trattengano i giovani e premino le competenze. Per quel che concerne
i sistemi incentivanti, si dovrebbe intervenire per orientarli su lassi
temporali ulteriori l’anno fiscale, proprio per favorire un impegno proiettato
nel tempo nel produrre valore, lavoro, stabilità della stessa impresa, oltre che
una remunerazione per il capitale investito.
Considerando poi il poco invidiabile trend demografico del nostro paese, diventa
improcrastinabile, per evitare nel giro di pochi anni una paralisi del sistema
produttivo, rivoluzionare la gestione delle risorse, cercando di valutare non
solo le competenze acquisite nel tempo ma anche quelle che potenzialmente
potrebbero essere acquisite, trasformando così le imprese in aziende
skills-based . Al di là di certe riforme pensionistiche dettate da miopi ed
iniqui calcoli elettoralistici (destinate a rivelare presto non solo
l’insostenibilità economica ma anche la pericolosità sociale), è possibile oggi,
grazie anche all’avvento delle nuove tecnologie, disegnare percorsi di sviluppo
delle competenze nei quali ingaggiare anche quelle persone, spesso
marginalizzate, perché stanche e demotivate anche dalla mancanza di investimenti
nei loro confronti.
C’è il tema poi della partecipazione dei collaboratori, del così detto "capitalismo
inclusivo" anticipato in Italia da Adriano Olivetti, in merito al quale c’è
sempre stata una certa idiosincrasia da parte di molti imprenditori, anche se
poi nella realtà si tratta, in base alla nostra esperienza ed alla
frequentazione assidua con gli imprenditori, di un’avversione più terminologica
che reale, visto che in molte delle loro imprese, questo sta diventando una
realtà. Non ci riferiamo solo ai sistemi di welfare ma anche a certi accordi che
premiano la collaborazione ed il contributo per il raggiungimento dei target
aziendali.
L’Italia, per la caratteristica delle imprese e del sistema produttivo, può,
nonostante gli endemici problemi e le ricorrenti contraddizioni, recuperare un
ruolo guida perché nelle piccole e medie imprese certi programmi sono più facili
da realizzare che nelle grandi corporation, grazie alla presenza fisica ed alla
testimonianza quotidiana dell’imprenditore e/o della famiglia, anche se spesso
emergono alcune difficoltà relative la leadership e la governance.
Rimane la curiosità di vedere quali saranno gli sviluppi e soprattutto le
politiche che saranno adottate da 180 CEO che hanno firmato la dichiarazione di
Business Roundtable , se alle parole seguiranno i fatti . Sino ad oggi la
cronaca non sembra registrare ancora eclatanti novità, visto che si preferisce
in certi casi perseguire ancora politiche di disinvestimento piuttosto che
operare scelte, indubbiamente più costose, ma coerenti con tale dichiarazione.
Così come non si elimina la povertà per decreto, è vero anche che non si può
cambiare la cultura per decreto ma occorrono quella vision e quella leadsership
che hanno solo gli imprenditori autentici.
a cura di
Antonio Angioni
Senior Partner
Poliedros Management Consulting
Quello delle diseguaglianze è ormai diventato un tema di confronto ricorrente
non solo nelle sedi istituzionali; sta caratterizzando, infatti, il dibattito
nei vari paesi (anche in forme violente se si pensa a quanto sta capitando da
diversi sabati in Francia) sin da quando la diseguaglianza, per dirla con
J.Stiglitz, è divenuta globale. Da un punto di vista economico rimane di
particolare interesse l’interpretazione offerta nella sezione "The structure
of inequality" offerta da T.Picketty nel suo "Capital in the Twenty-firsy
Centry" ma esistono forme emergenti di diseguaglianza che non fanno ancora
notizia ma sulle quali sarebbe opportuno riflettere per individuare un’adeguata
strategia.
Lontano dai clamori in molte imprese, soprattutto in quelle esposte (e capaci di
reagire) alla competizione internazionale, si sta sviluppando un radicale
processo di trasformazione. Grazie alle opportunità offerte dalle nuove
tecnologie la produzione e le vendite si stanno sofisticando sempre di più dando
vita a servizi knowledge intensive. E’ in corso un ridisegno del sistema,
risulta favorito chi riesce a stare nel loop mentre aumentano le distanze con
chi non sa stare al passo. Più specificatamente la geometria cloud/applicazioni
stimola la progettazione di prodotti e servizi innovativi. La relazione fra
sensoristica e big data sta facendo emergere tecniche predittive in relazione
sia ai mercati sia alla funzionalità delle macchine produttive e degli altri
strumenti tecnici.
La diffusione di algoritmi , il machine learning, l’I.o.T stanno abbattendo i
costi dell’innovazione ed aumentando la reattività e l’adattività delle imprese
, con riduzione degli sprechi e produzioni di tipo sartoriale. Il passaggio dal
B2C al C2B porta a ridisegnare i processi attorno ai clienti
imponendo alle aziende di: smontare i feudi interni, coinvolgere tutto il
personale, costruire una forte governance interna sui processi dati in
outsourcing. L’attenzione, o meglio, l’approccio luddista sulla presunta
sostituzione tecnologica delle persone sta distogliendo invece il focus da
quella che è la vera sfida dei nostri giorni e dei prossimi anni, sfida che in
Germania, partita dieci anni fa, è già stata superata, ossia: l’up-skilling e
il re-skilling delle risorse.
Il reperimento di nuove risorse (meno costose e più adeguate) spesso intrapreso
in passato dopo ristrutturazioni finanziate da un generoso welfare, non è più
percorribile, come confermato dai dati del rapporto Excelsior 2018 secondo il
quale le imprese faticano a trovare il personale per un posto di lavoro su
quattro. In particolare nelle assunzioni under 30 nel 28% dei casi le imprese
non trovano le figure professionali richieste, contro il 26% medio che riguarda
tutte le fasce di età. Questo sta spingendo molte imprese ad intraprendere
processi di cambiamento e di ri-centraggio culturale e delle competenze.
Il processo in corso, però, non mette al riparo dal rischio di obsolescenza che
sta cominciando a riguardare fasce crescenti di persone, soprattutto quelle che
per forza di inerzia non sentono la necessità di aggiornarsi e di cogliere le
opportunità per uno sviluppo formativo. È una nuova forma di diseguaglianza che
sta emergendo, che richiede risposte adeguate e sistemiche anziché vecchie
ricette, tornate alla ribalta in queste settimane, legate a visioni arcadiche di
chi del sistema produttivo e delle imprese mostra di conoscere ben poco e quel
poco per giunta anche datato.
a cura di
Antonio Angioni
Senior Partner
Poliedros Management Consulting